Le deroghe all’incompatibilità assoluta dei dipendenti pubblici

Approfondimento di Paola Aldigeri

In continuità con la precedente newsletter, iniziamo ad affrontare oggi  le deroghe alla disciplina dell’incompatibilità assoluta a cui sono ordinariamente soggetti i pubblici dipendenti, con particolare riferimento al comparto delle Funzioni Locali.
Ricordiamo che il regime delle incompatibilità assoluta trova la sua prima fonte di regolazione nel d.P.R. n. 3/1957, agli articoli 60 e seguenti, che in sintesi prevedono:

  • L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, “tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”;
  • Tale divieto non si applica nei casi di società cooperative;
  • L’impiegato che contravvenga ai divieti posti dagli articoli 60 e 62 viene diffidato dal ministro o dal direttore generale competente, a cessare dalla situazione di incompatibilità; anche qualora l’impiegato abbia obbedito alla diffida, l’eventuale azione disciplinare non è preclusa. Decorsi quindici giorni dalla diffida, senza che la incompatibilità sia cessata, l’impiegato decade dall’impiego.

Questa disciplina subisce, tuttavia, alcune deroghe per espressa volontà del legislatore, alcune delle quali richiamate dall’art. 53 del decreto legislativo n. 165/2001 ed altre introdotte da specifiche disposizioni di legge.

Il part time con prestazione lavorativa uguale o inferiore al 50% del tempo pieno

La prima deroga da ricordare al regime di incompatibilità assoluta dei dipendenti pubblici e di cui ci occupiamo oggi è il caso del rapporto di lavoro in regime di tempo parziale con prestazione lavorativa uguale o inferiore al 50% del tempo pieno, introdotta dall’articolo 1, commi 56 ss., della legge n. 662/1996 e richiamata dall’art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001.
In questo caso, tutti gli incarichi che presentano, singolarmente o cumulativamente, le caratteristiche della abitualità e professionalità possono essere svolti dal dipendente pubblico, purché non siano in conflitto di interesse, anche potenziale, con l’attività istituzionale.
Ma vediamo cosa dice nel dettaglio la normativa.

L’art. 1 della legge n. 662/1996 ss.mm. prevede che:

  1. Il regime dell’incompatibilità assoluta di cui all’art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, nonché le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno (comma 56);
  2. Per questi dipendenti, sono abrogate le disposizioni che vietano l’iscrizione ad albi e l’esercizio di attività professionali. Questi dipendenti, tuttavia, non possono essere assumere incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche e assumere il patrocinio in controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione (comma 56 bis);
  3. La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale può essere concessa dall’amministrazione entro sessanta giorni dalla domanda, nella quale è indicata l’eventuale attività di lavoro subordinato o autonomo che il dipendente intende svolgere. L’amministrazione, entro il predetto termine, nega la trasformazione del rapporto nel caso in cui l’attività lavorativa di lavoro autonomo o subordinato comporti un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta dal dipendente ovvero, nel caso in cui la trasformazione comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa. Il dipendente è tenuto, inoltre, a comunicare, entro quindici giorni, all’amministrazione nella quale presta servizio, l’eventuale successivo inizio o la variazione dell’attività lavorativa (comma 58, periodi primo, secondo e quarto);
  4. La trasformazione non può essere comunque concessa qualora l’attività lavorativa di lavoro subordinato debba intercorrere con un’amministrazione pubblica (comma 58, terzo periodo);
  5. I dipendenti degli enti locali possono svolgere prestazioni per conto di altri enti previa autorizzazione rilasciata dall’amministrazione di appartenenza (comma 58 bis).

Il regime part time con prestazione inferiore o uguale al 50% del tempo pieno, consente, quindi, un buon margine di libertà al dipendente pubblico, incontrando il solo limite generale del divieto di porre in essere attività in conflitto di interessi, anche potenziale, con il rapporto in essere con l’amministrazione datrice di lavoro.
Sulla base della disposizione di cui al punto b), questi dipendenti possono essere iscritti agli albi professionali ed esercitare attività professionale, con due eccezioni però:

  • il caso degli avvocati, per i quali l’esercizio della professione forense è incompatibile con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario limitato (vedi, da ultimo, Corte di Cassazione, sezione lavoro, 13 aprile 2021, n. 9660);
  • l’assunzione di incarichi professionali da altre amministrazioni pubbliche.

A tale proposito, tuttavia, occorre rilevare che, a differenza di tutte le altre pubbliche amministrazioni, per gli enti locali, queste eccezioni non valgono, in quanto la legge n. 662/1996 (vedi punto e) sopra riportato) e il Testo unico degli enti locali (vedi art. 92, comma 1) prevedono che i dipendenti degli enti locali a tempo parziale possano svolgere prestazioni/prestare attività lavorativa presso altri enti. Resta, ovviamente, fermo il limite generale dell’assenza del conflitto di interesse, anche potenziale.
Non si ritiene, invece, possibile instaurare due rapporti di lavoro a tempo parziale con lo stesso ente locale.
Si veda a tale proposito il parere ARAN RAL 358.
Altra questione interessante affrontata recentemente anche dalla giurisprudenza riguarda il fatto se il dipendente a part time al 50% debba necessariamente ottenere o meno dalla propria amministrazione l’autorizzazione allo svolgimento di altra attività lavorativa.
L’art. 53, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001 esclude espressamente dal regime autorizzatorio i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno.
Il dubbio è sorto in relazione al dato letterale del comma 1 dell’art. 92 del TUEL (ma anche del comma 58 bis dell’art. 1 della legge n. 662/1996), che prevede testualmente che “I dipendenti degli enti locali a tempo parziale, purché autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, possono prestare attività lavorativa presso altri enti”.
Già la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con sentenza 7 novembre 2019, n. 28757, aveva sancito che la previsione dell’art. 92, comma 1, del d.lgs. 267/2000 deve essere letta in combinato disposto con il comma 6 dell’art. 53 del d.lgs. 165/2001, che appunto esclude il regime autorizzatorio per i lavoratori part time non superiori al 50%.
Successivamente, con sentenza n. 22497 del 18 luglio 2022, la Corte ha ribadito lo stesso concetto, ossia che i dipendenti pubblici che sono in part time fino al 50% possono svolgere ulteriori attività lavorative, anche sotto la forma di rapporto subordinato con altre PA, senza la necessità di dovere essere autorizzati preventivamente da parte della propria amministrazione datrice di lavoro e non possono essere licenziati nel caso in cui non abbiano richiesto tale autorizzazione.
In particolare, la sentenza conferma le pronunce di primo e secondo grado sulla illegittimità del licenziamento di un dipendente di ente locale che, a seguito di autorizzazione alla trasformazione in part time del proprio rapporto di lavoro, è stato assunto da un’altra amministrazione locale e che non ha chiesto l’autorizzazione alla instaurazione di tale rapporto all’ente da cui dipende a tempo indeterminato.
Tale interpretazione è in linea con quanto previsto dai  Criteri generali in materia di incarichi vietati ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche” elaborati dalla Funzione pubblica nel 2013, che – tra gli incarichi preclusi a tutti i dipendenti, a prescindere dalla consistenza dell’orario di lavoro –  inserisce, nel caso di rapporto di lavoro in regime di tempo parziale con prestazione lavorativa uguale o inferiore al 50%, lo svolgimento di incarichi o attività che non siano stati oggetto di (sola) comunicazione al momento della trasformazione del rapporto o in un momento successivo.
Anche il comma 58 dell’art. 1 della legge n. 662/1996, non prevede il rilascio di autorizzazione, ma la sola indicazione nella domanda di part time dell’eventuale attività di lavoro subordinato o autonomo che il dipendente intende svolgere, in modo tale che, nei successivi sessanta giorni, l’amministrazione possa negare la trasformazione del rapporto nel caso in cui l’attività lavorativa di lavoro autonomo o subordinato comporti un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta dal dipendente ovvero nel caso in cui la trasformazione comporti, in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa.
Qualora l’attività lavorativa sia richiesta in un momento successivo alla domanda di part time o l’attività lavorativa già iniziata subisca delle modifiche, il dipendente è tenuto, inoltre, a comunicare, entro quindici giorni, all’amministrazione nella quale presta servizio, l’eventuale successivo inizio o la variazione dell’attività lavorativa.
Stessa procedura è prevista dall’art. 53 del CCNL 21.5.2018, non disapplicato dal CCNL 16.11.2022.
Il Dipartimento della Funzione pubblica, con propria nota n. 11012 del 3 febbraio 2022, ha rilasciato un parere ad un Ministero in cui ha evidenziato “come lo svolgimento di attività professionale in regime di part-time al 50 per cento non sia del tutto sganciato dalla valutazione dell’amministrazione, poiché le norme contemplano la necessità che l’impegno richiesto sia compatibile con l’attività di servizio e che la stessa lo sia anche nel merito, per l’assenza di conflitto d’interesse.”
In tale sede, il Dipartimento evidenzia che “il regime di impegno e l’insussistenza di ipotesi di conflitto d’interesse dovrebbero di regola essere considerate in sede preventiva e cioè nella fase che precede l’attivazione del rapporto di lavoro in regime di part-time e, più in particolare, in sede di esame dell’istanza di trasformazione, allo scopo di verificare che l’attività che il dipendente intende svolgere non incida negativamente sull’attività istituzionale per ragioni organizzative o di merito. […] L’esame dell’istanza di trasformazione è infatti la sede più opportuna per svolgere tale valutazione – che si configura come un onere in capo alle amministrazioni – anche in relazione alle modalità di svolgimento del part-time richieste dal dipendente. Successivamente alla trasformazione del regime orario del rapporto di lavoro, la compatibilità dell’impegno derivante dallo svolgimento dell’attività professionale con l’attività di servizio sarà desumibile all’esito del processo di valutazione della prestazione lavorativa, considerato anche sulla base del sistema di valutazione adottato da codesto Ministero conformemente alle norme vigenti in materia.”
La nota del Dipartimento si conclude prevedendo l’opportunità che le amministrazioni monitorino anche nel tempo le “seconde attività” dei propri dipendenti; si legge, infatti, che “in ogni caso, successivamente alla trasformazione, devono ritenersi auspicabili oneri informativi sugli incarichi assunti laddove si consideri l’esigenza di monitorare l’effettiva insussistenza di situazioni di potenziale conflitto d’interesse nel corso dello svolgimento dell’attività professionale”, definendo le modalità attuative di tale monitoraggio nel proprio regolamento interno, nel quale devono essere identificate le situazioni di potenziale conflitto di interesse con l’attività di servizio.
Si ritiene piuttosto discutibile la sentenza della Corte di Cassazione del 22 agosto 2022, n. 25066, che ha ritenuto illegittima la revoca unilaterale del part-time dovendo ritenersi, “stante il mancato pronunciamento dell’amministrazione sulla domanda del dipendente nel termine di sessanta giorni previsto dall’art. 1, comma 58, I. n. 662/1996, essersi il rapporto trasformato in part-time già allo spirare del termine e validamente restando irrilevante ai fini della validità di un tale effetto l’eventuale incompatibilità dell’attività cui è finalizzata la richiesta”; nella motivazione si legge che il mancato pronunciamento dell’amministrazione nel termine fissato dalla legge (60 giorni dalla richiesta) comporta l’automaticità della trasformazione in part time del rapporto, con la conseguenza che una nuova modifica dell’orario di lavoro della prestazione presuppone un nuovo accordo consensuale; insomma, una sorta di silenzio assenso la cui revoca non sarebbe consentita al datore di lavoro.
La conclusione della Corte parrebbe privare gli enti del potere di salvaguardare l’interesse pubblico che risiede nell’operato corretto dei pubblici dipendenti in assenza di qualsiasi conflitto di interesse, a salvaguardia dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa.
Molto interessante, per i principi che esprime, è il parere di ANAC n. 4500/2023, la quale, pur sottolineando di detenere soli poteri di indirizzo generale in materia, rende la propria opinione in merito alla sussistenza di una ipotesi di conflitto di interessi a carico di un agente di polizia municipale e di PS (in regime di part time al 50%) con i compiti di controllo e di verifica sul rispetto delle norme in ambito commerciale e attività di affittacamere. Dopo aver svolto una ricognizione normativa e illustrativa del concetto di “conflitto di interesse”, l’ANAC asserisce che “Nel caso di specie non è possibile rilevare in astratto un rischio di compromissione dell’azione di polizia amministrativa (in particolare nell’attività di PS) tale da poter determinare un conflitto cd. “strutturale”. Diversamente, potrebbero verificarsi in concreto situazioni particolarmente “rischiose”, derivanti dalla sovrapposizione dei ruoli di controllore e controllato in capo al medesimo soggetto in occasione, ad esempio, di controlli e verifiche sul rispetto delle norme in ambito commerciale, da effettuarsi nei confronti della società/attività ricettizia di affittacamere che l’interessato intende intraprendere nel Comune nel quale esercita la sua attività lavorativa.”
In sostanza, non si rileva un conflitto di interesse generalizzato, tale per cui l’attività di affittacamere debba ritenersi vietato, ma l’agente dovrà conformarsi ai doveri di comunicazione a carico dei pubblici dipendenti previsti dal Codice di comportamento nazionale, previsti dagli artt. 6 e 7 del d.P.R. n. 62/2013 ss.mm. e dal Codice adottato dall’amministrazione in questione.

Leggi sulla medesima questione:

Parte 2: “La modulistica di richiesta del part time al 50% del tempo pieno per lo svolgimento di una seconda attività”

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