Benché la fattispecie oggetto della pronuncia investa un rapporto alle dipendenze di privato datore di lavoro, i principi che se ne derivano restano comunque di particolare di speciale interesse anche per i fini della Rivista che ci ospita, calibrati sul rapporto di lavoro pubblico.
Ciò sicuramente da un punto di vista squisitamente formale, alla luce dell’espresso richiamo che l’art. 55, comma 2, del D. Lgs. n. 165/2001, compie all’art. 2106 c.c., del più generale rinvio alle disposizioni codicistiche che si legge all’art. 2 comma 2 del medesimo decreto, ma nondimeno sotto un profilo sostanziale.
Infatti, a qualunque latitudine, l’obbligo di fedeltà, quindi di effettivo e sostanziale uniformarsi della prestazione lavorativa del dipendente alle finalità datoriali, comunque permea l’obbligazione del lavoratore, quale che sia la fonte che la regolamenti.
Anzi, per il dipendente della pubblica amministrazione – quantunque sia intervenuta la privatizzazione del rapporto, e più in particolare delle fonti e degli strumenti di regolazione di esso – la circostanza che l’attività del proprio “datore di lavoro”, resti indirizzata al soddisfacimento del pubblico interesse, rende di ancor maggiore pregnanza l’osservanza di tale obbligo, come peraltro testimoniato dalle fonti che lo presidiano e dalle sanzioni che l’ordinamento appresta per il caso di sua violazione.
Si consideri, esemplificativamente, che il codice penale punisce come reato la utilizzazione d’invenzioni o scoperte conosciute per ragione d’ufficio (art. 325 c.p.) nonché la rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio da parte del pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio nelle ipotesi stabilite dall’art. 326 c.p., a testimonianza di uno speciale disvalore di cui, a determinate condizioni, si colora la condotta del dipendente pubblico non conforme ai principi che latamente possono ricondursi all’obbligo di fedeltà.
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