STATALI Un posto nel pubblico impiego il sogno che diventa un incubo

Fonte: La Repubblica

Era il gennaio del 1947, e don Luigi Sturzo, il cattolico più inascoltato d’Italia e il teorico più disincantato dello Stato Minimo, aveva già capito l’antifona: «Tutto il mondo italiano vuole un piccolo o grande commissariato, un posto nei gabinetti o nei sottoscala, ma un posto in qualcuno dei tanti uffici dipendenti dallo Stato, perché tutto il mondo italiano vuole dipendere dallo Stato…». In quel primo dopoguerra l’Italietta post-fascista si nutriva di burocrazia parassitaria e di Statolatria assistenzialista. In un Paese straccione e senza industria privata, che si presentava all’America con in mano solo il cappelluccio vuoto di De Gasperi, il posto da «travet» era uno status. Da salvaguardare a qualunque prezzo, per chi era già dentro le viscere del Burosauro pubblico. Da raggiungere a tutti i costi, per chi ne era fuori.
Il famoso «esercito degli statali», che ci portiamo dietro da più di mezzo secolo, nasce lì. Da quell’idea mussoliniana, donchisciottesca e velleitaria, di costruire una Pubblica Amministrazione dentro uno Stato a cui, come diceva Piero Gobetti, «il popolo non crede perché non l’ha costruito con il suo sangue». È intorno a quell’idea, e poi alla sua successiva declinazione clientelare e perfino caricaturale, che nel Belpaese si afferma il modello accidioso, securitario e piccolo-borghese dell’«impiegomania» (denunciata già allora sempre dagli indomiti e inascoltati azionisti). L’assunzione al ministero (insieme alla scala mobile e alla coperta generosa dei Bot) diventa una delle «merci» del Grande Scambio che regola la democrazia del debito nei decenni allegri e irresponsabili della Prima Repubblica. Alla faccia dei principi del Piano del Lavoro di Di Vittorio, del Piano Vanoni per l’occupazione e della Nota Aggiuntiva di Ugo La Malfa, il pubblico impiego diventa un serbatoio di consenso politico, sapientemente amministrato dal «Caf» (Craxi-Andreotti-Forlani) fino ai primi Anni Novanta.
L’immaginario collettivo della nazione si abitua a identificare l’impiego statale come il posto fisso a vita, un terno al lotto che si vince con i «concorsoni» truccati o le assunzioni a pioggia. Una prassi consolidata e bipartisan, che ingrassa il Leviatano e porta oggi la Pubblica Amministrazione a pagare uno stipendio a 3 milioni 458 mila 857 dipendenti.
Tanti? C’è chi dice no, c’è chi dice sì. I numeri aiutano, ma fino a un certo punto. Secondo la Corte dei conti, gli stipendi del pubblico impiego, in rapporto alla popolazione residente, costano in media 2.849 euro all’anno per ciascun cittadino italiano. Più della Germania (2.830 euro), della Spagna (2.708 euro) e della Grecia (2.436 euro). Ma meno della Francia (4.001 euro) dell’Olanda (3.557 euro) e del Regno Unito (3.118 euro).
Come quantità, cioè volume complessivo della spesa in rapporto al Pil (10,8% nel 2011, oltre 152 miliardi in valore assoluto) siamo in linea con l’Europa. Ma come qualità siamo fuori da tutte le medie. «In un contesto caratterizzato dalla perdita di competitività del sistema Italia – si legge nell’ultima relazione annuale dei magistrati contabili – preoccupanti segnali riguardano la produttività del settore pubblico».
Nel 2011, dopo un lieve aumento l’anno precedente, l’«esercito degli statali» è tornato a quota zero. «Il costo del lavoro per unità di prodotto ha ripreso a salire», denuncia ancora la Corte. Pesano «l’assenza della meritocrazia» e «il blocco della contrattazione deciso nel 2010 per tamponare le spese», che ha comportato «il rinvio delle norme più significative in materia di valutazione del merito individuale e dell’impegno dei dipendenti». Risultato: nel pubblico impiego continua a imperversare la «distribuzione indifferenziata dei trattamenti accessori, al di fuori di criteri realmente selettivi e premiali».
Passata la sbornia statalista, sancita l’egemonia culturale del neo-liberismo bushiano e americano che chiede solo di «affamare la bestia» (cioè lo Stato), esplosa la crisi globale e deflagrato in Occidente il nuovo «conflitto di classe», il sogno dell’impiego pubblico diventa un incubo.
Lo «statale» si trasforma nel simbolo di ogni male. «È inefficiente, fa la spesa nell’orario di lavoro, nessuno lo controlla e nessuno lo può licenziare»: negli ultimi tre anni il «luogo-comunismo» del dipendente privato sotto stress e l’ideologismo della destra alle vongole di casa nostra alimentano un unico, enorme frullatore che finisce per triturare tutti, i furbi fantozziani e gli onesti stakanovisti. Tutto precipita nella battaglia di Brunetta contro i «fannulloni». Il ministro «fantuttone» mettei tornelli, taglia gli stipendi, blocca i contratti, non retribuisce i giorni di malattia. In minima parte ha ragione, perché di tagliare gli sprechi e recuperare l’efficienza c’è davvero bisogno. In massima parte ha torto, perché colpisce la bassa manovalanza e non la dirigenza, e perché il governo Berlusconi, mentre risparmia l’imprenditore e strizza l’occhio all’evasore, bastona solo l’«apposito» statale: quei 3 milioni e mezzo di «privilegiati» non votano Pdl, quindi non gli costa niente rompere il patto con chi sta comunque fuori dalla sua costituency politica.
Ora tocca a Monti. Il governo «tecnico» una costituency vera e propria dice di non averla. E dunque, ancora una volta, va giù pesante sugli statali. Un po’ perché glielo chiede la Bce, con la famigerata lettera dell’agosto 2011.
Un po’ perché deve fare cassa e non vuole aumentare l’Iva. Un po’, diciamolo, perché è anche giusto riprovare a tagliare dove si spende troppo o dove si spende male. Ma l’impresa sarà titanica.
Non c’è atto politico più «sedizioso» di quello che tocca il nervo più scoperto della spesa pubblica.
Ma serve equità, non macelleria sociale. Costringere lo Stato a spendere meglio, e a fornire servizi migliori, è l’unico modo per salvarlo davvero dagli attacchi dei «falsi anacoreti» del dio mercato.

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