Sprechi, baby pensioni e privilegi il welfare che pesa sui conti pubblici

Fonte: Il Messaggero

ABBIAMO vissuto ottant’anni di Stato sociale, con le sue molte declinazioni, tra il 1929 e il fallimento di Lehman Brothers.
Un aspetto interessante di questo arco di tempo è che dalla crisi del 1929 siamo usciti con la nascita dello Stato sociale moderno (prima l’esperimento della Svezia, poi il contributo del fascismo, e infine nel dopoguerra Beveridge e il Regno Unito), cioè molto welfare.
Mentre dalla crisi combinata subprime – Lehman – recessione usciamo con una spinta che va in direzione opposta: revisione della spesa pubblica, con profondi interrogativi sulla spesa sociale, cioè molto probabilmente meno welfare.
Dice Andrea Rapini, studioso di welfare state, professore di Storia contemporanea a Modena e Reggio Emilia che «nell’evoluzione dello stato sociale c’è una terza crisi di mezzo, quella degli anni ’70.
È stata una evoluzione lenta.
Dopo la grande depressione, indipendentemente dalle cornici politiche, lo Stato interviene in economia con la sua rete di protezione sociale.
I regimi fascisti europei riescono a integrare le masse nello stato attraverso la spesa sociale, quello che non era riuscito agli Stati liberali ottocenteschi.
Il welfare vero e proprio arriva nel dopoguerra ed è la risposta democratica a una intuizione dei regimi totalitari: lo Stato del benessere è consenso, Beveridge teorizza per le democrazie una macchina del welfare più gioiosa rispetto a quelle fasciste».
L’impennata della spesa La spesa sociale comincia a crescere, soprattutto quella sanitaria e pensionistica, poi arrivano gli anni ’70.
«Ed entra in crisi l’assetto fordista del mondo occidentale – continua Rapini – In teoria passa l’idea della riduzione della spesa, in realtà succede poco.
A parte il Regno Unito, non c’è una vera ristrutturazione della spesa pubblica».
Paolo Onofri, professore di politica economica a Bologna, fondatore di Prometeia, quindici anni fa fu il presidente di una commissione per la riforma del welfare, nominata da Romano Prodi.
Dice: «Negli anni dell’espansione dello Stato sociale, ci furono molte distorsioni.
Il pubblico impiego utilizzato come ammortizzatore sociale, un sistema pensionistico troppo generoso».
Le pensioni baby nel pubblico impiego, per esempio, con erogazioni dello Stato che risulteranno equivalenti al triplo dei contributi versati, nove miliardi e mezzo l’anno su 240 miliardi di spesa pensionistica totale.
«Quello è un simbolo delle distorsioni di quella fase, ma non è l’unico», dice.
Aggiunge Rapini: «I baby pensionati sono una categoria di beneficiari di una generale impostazione clientelare e corporativa della spesa, che i partiti – la Dc soprattutto – ereditarono dal fascismo come metodo.
Un sistema di welfare estremamente frammentato, in cui non c’era una spinta universalista, ma negoziati e scambi separati con categorie e corporazioni.
Per cinquant’anni l’Inps è stato uno strumento di consenso.
È strano, ma la prima vera riforma universalistica del welfare italiano, arriva quando il welfare inglese sta per essere ridimensionato, cioè alla fine degli anni ’70, nel 1978, con la riforma sanitaria che erogava servizi uguali per tutti indipendentemente dalla condizione di lavoro del cittadino».
Che cosa sarà dell’idea di welfare dopo la Grande Recessione? Dice Onofri: «Bisognerà inevitabilmente dare una sensibile registrata alla spesa, ma non sarà facile rinunciare alle cose a cui siamo abituati».
Ma è possibile ridiscutere il welfare? «In teoria – osserva Rapini – la crisi dovrebbe essere un’occasione per riflettere sullo Stato sociale.
Ma così non è stato finora.
Credo però che questo dibattito debba cominciare in tutta Europa.
A partire da una considerazione storica, il welfare dobbiamo conservarlo perché è diventata una caratteristica delle società europee a partire dalle assicurazioni lavoristiche introdotte da Bismarck.
Ma è difficile riproporre lo stesso tipo di welfare che abbiamo vissuto.
Dobbiamo riadattarlo ai nuovi equilibri tra Stato, società ed economia.
Abbiamo già due generazioni di persone che non sono incluse nelle protezioni sociali.
Bisogna ristabilire forme di equilibrio redistributivo e fiscale.
E lavorare all’inclusione sociale».
Nei sessant’anni che abbiamo alle spalle la spesa pubblica è cambiata nella sua composizione.
In Italia è cresciuta la spesa per i dipendenti pubblici, la spesa per l’acquisto di beni e servizi, la spesa pensionistica, la spesa per interessi.
Gli interessi sul debito erano il 3,8% della spesa pubblica nel 1951, erano il 10,7 nel 1980, l’8,8 nel 2010, ma torneranno sopra il 10% quest’anno (al momento sono previsti quasi 85 miliardi di interessi sul debito).
Ma si è modificata anche la struttura interna della spesa.
Come si vede nella tabella, la composizione per funzioni della spesa per consumi collettivi (che non conteggia le pensioni) ha visto diminuire negli ultimi trent’anni la spesa per la difesa passata dal 7,1 al 6,9% del totale, l’ordine pubblico dal 9 all’8,7%, l’istruzione, dal 25,7 del 1980 al 20% del 2009.
È cresciuta la spesa per la protezione dell’ambiente e quella sanitaria, passata dal 29,7% al 33,8%.
Quanto alle pensioni, nello stesso periodo la spesa è passata dal 9,4 al 30% della spesa pubblica; da 22 miliardi di euro del 1980 a 241 del 2008, a valori 2000 equivalenti rispettivamente a 86 e 195 miliardi di euro; con pensioni medie annue passate da 5.000 a 8.200 euro (valori 2000).
Come cambiare il welfare Con Paolo Onofri cerchiamo di ragionare su quello che si potrebbe ragionevolmente cambiare, a partire da una domanda: si può fare una riforma del welfare? Dice Onofri: «Partiamo da quello che è stato già fatto.
Molte cose sono migliorate.
Dopo il passaggio definitivo al contributivo per tutti, nelle pensioni abbiamo un sistema sostenibile con tre servo-meccanismi: l’ampiezza della torta pensionistica cresce in proporzione alla crescita del pil; nel calcolo entra la vita media attesa al momento del pensionamento; è stata indicizzata alla variazione della vita media attesa anche l’età del pensionamento.
Oggi abbiamo ancora una spesa più alta di alcuni paesi, ma in prospettiva andiamo verso un sistema più sostenibile».
Però abbiamo un sistema di ammortizzatori sociali embrionale.
«E rafforzarlo costa molto.
Come lo finanziamo? Innanzitutto dobbiamo uscire dalla crisi dell’euro.
La Germania ha riformato il proprio mercato del lavoro in condizioni migliori e con una deroga a Maastricht.
Se la nottata passerà lasciando indenne l’euro, recupereremo una ventina di miliardi l’anno dalla spesa per interessi».
Ma ci sono parti della nostra spesa che si possono ridurre drasticamente? «Aldilà della riduzione degli abusi e degli sprechi, mi sembra impossibile operare dei risparmi sulla spesa sociale, che anzi è destinata a salire.
Esempio: la maggior parte della spesa sanitaria avviene negli ultimi 5 anni di vita degli italiani.
Dunque si spende molto, ma proprio quando serve.
La stessa cosa vale per l’istruzione.
Si possono ripensare le modalità organizzative, ma anche qui solo in funzione anti-sprechi».
Perché in realtà, uno dei paradossi della situazione italiana è che la nostra spesa primaria – cioè al netto degli interessi sul debito – è più bassa dei nostri due grandi partner europei Francia e Germania.
Come ricorda Aldo Barba, professore di politica economica a Napoli, «ancora alla fine degli anni novanta la spesa primaria in Italia era pari in Italia al 41,5% del pil, contro il 44,9% della Germania e il 49,6% della Francia.
Il divario è diminuito, a causa del nostro pil basso».
Secondo Onofri quello che possiamo fare è innanzitutto «assicurarci una pubblica amministrazione che funzioni».
Il resto è manutenzione.
Cioè, razionalizzare la spesa per l’acquisto di beni e servizi (circa 170 miliardi l’anno, in cui si annidano molti sprechi); contenere le storture della spesa locale, non si tratta solo di ridurre gli sprechi istituzionali, tipo le province, ma cercare di mettere a registro il modo in cui le autonomie locali spendono, una delle cause storiche dell’aumento della spesa pubblica; ridurre la spesa per interessi cercando di tenere sotto controllo i tassi di indebitamento (questo come si vede tutti i giorni è un lavoro titanico che riguarda la reputazione sui mercati); politiche per la crescita per alimentare il Pil.
Il pubblico impiego Infine la voce più delicata, quella del pubblico impiego.
«Sì, è un percorso inevitabile, tocca interessi concreti, ma quella spesa va contenuta.
In prospettiva ciò comporterà la diminuzione dei dipendenti pubblici.
Ma tutto va fatto con tempestività e intelligenza per evitare reazioni come in Spagna e in Grecia».
È interessante un altro paradosso di questa crisi europea.
Non è tanto il popolo degli esclusi che scende in piazza.
In Spagna protestano quelli che hanno goduto per quarant’anni di privilegi che adesso vengono loro ridotti.
«Sì, ma il dipendente pubblico non si percepisce in questo modo.
Pensa di essere stato male utilizzato.
E non si rende conto che avendo un posto fisso, sta già meglio degli altri».
Però c’è anche chi non crede per principio nell’opportunità di un dimagrimento complessivo della spesa dello Stato.
Dice Barba: «Se noi ragioniamo a prodotto dato, cioè decrescente, è ovvio che potremmo permetterci sempre di meno.
Il punto è se lasciar dimagrire lo Stato servirà a far ripartire la crescita.
Io non credo.
La spesa dello Stato ha un ruolo nella crescita».
Da posizioni culturali diverse sul rapporto tra Stato e società, e sulla prevalenza di ciascuno sull’altro, si discuterà ancora a lungo.
Quello che non possiamo permetterci, però, è non assumere una linea di condotta.
Dal dopoguerra a oggi il mondo è profondamente cambiato.
A partire dalla metà degli anni ’70 l’intera struttura della società occidentale si è modificata, e con essa i presupposti sociali ed economici delle protezioni pubbliche di cui abbiamo goduto fino a oggi.
Da qui bisogna ricominciare.

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