Riordino p.a., incroci pericolosi

Fonte: Italia Oggi

Non sono solo le province a essere direttamente interessate ai contenuti del disegno di legge Delrio, che ieri ha iniziato il proprio iter con l’approvazione in consiglio dei ministri. Esso, infatti, tocca in modo diretto anche i comuni e le regioni, coinvolgendoli nell’articolato (e sotto diversi profili problematico) percorso di riordino della p.a. locale, nella quale rappresenteranno gli unici due livelli di governo ancora direttamente eletti dai cittadini. I principali stakeholders sono gli attuali enti di area vasta, destinati a essere, laddove non soppiantati in toto dalle future città metropolitane, comunque declassati a enti di secondo livello con funzioni fortemente ridotte (si veda Italia Oggi di ieri). In tali casi, i comuni, singoli o associati in unioni, erediteranno tutte le altre competenze, fatta eccezione per quelle che le regioni, nelle materie di propria competenza (cioè in quelle previste dall’art. 117, commi e 4, Cost.) decideranno di assumere in via diretta. Ovviamente, il transito delle funzioni dovrà essere accompagnato dal passaggio ai sindaci delle correlate risorse finanziarie, umane, strumentali, organizzative e patrimoniali. A ciò, nelle materie di competenza statale, dovrà provvedere un apposito dpcm da adottare entro il prossimo 31 marzo. Nelle altre materie, invece, il meccanismo dovrà essere regolato da leggi regionali, per la cui adozione non è previsto alcun termine. In via transitoria, peraltro, ovvero in attesa di una futura (ma neppure abbozzata) riforma della finanza locale, le entrate tributarie continueranno a essere riscosse dalle province, che dovranno poi riversarle ai comuni e regioni, salvo che esse non ineriscano a funzioni che questi ultimi avranno nel frattempo deciso di delegare nuovamente alle prime. Un meccanismo di incroci fra compiti e risorse tutt’altro che facile da calibrare. Altrettanto rilevanti le novità che si prospettano per i municipi più piccoli (quelli al sotto di 5 mila abitanti, o di 3 mila se montani) rispetto all’obbligo a essi imposto di gestire in forma associata il proprio core business, ovvero le cosiddette funzioni fondamentali. Chi si aspettava una proroga (a oggi, dopo lo slittamento a fine anno del termine per l’attivazione delle centrali uniche di committenza, la scadenza per tutte le funzioni è fissata al 31 dicembre 2013) per ora è rimasto deluso. Le modifiche in cantiere, infatti, riguardano solo le modalità per adempiere. In base alla disciplina vigente, i comuni possono scegliere, in alternativa o contestualmente alla costituzione di una unione, di stipulare una o più convenzioni. In tal caso, essi non devono neppure raggiungere una soglia demografica minima, come invece è previsto per le unioni (che devono raggruppare almeno 10 mila abitanti), a meno che non lo preveda la regione di appartenenza. Gli unici limiti sono rappresentati dalla durata minima della convenzione (almeno tre anni) e dalla necessità di conseguire significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione (in mancanza, scatta l’obbligo di dare vita a una unione). Il disegno di legge, invece, indica quest’ultimo come il modello privilegiato e limita la durata massima delle eventuali convenzioni a cinque anni dalla data di entrata in vigore delle nuove regole. Decorso tale termine, le convenzioni cesseranno di avere efficacia e i comuni che le avevano stipulate non potranno più utilizzare tale strumento per esercitare in forma associata le proprie funzioni fondamentali, ma dovranno costituire un’unione o (si ritiene) confluire in un’unione già esistente. Viene confermata la possibilità di costituire unioni «speciali» cui conferire la totalità delle funzioni comunali (non solo quelle fondamentali, ma anche le altre, ivi comprese quelle delegate o conferite), che, anzi, viene estesa a tutti i comuni con meno di 5 mila abitanti, mentre ora è consentita solo a quelli sotto i mille. La disciplina delle diverse tipologie di unione, peraltro, viene fortemente allineata: in tutti i casi, scompare la giunta, sostituita da un comitato composto dai tutti i sindaci dei comuni aderenti, che continueranno a sedere (insieme a due consiglieri per ogni comune, di cui uno in rappresentanza della minoranza) anche nel consiglio. Fra i componenti dei comitato dei sindaci, il presidente dell’unione potrà nominare un vicepresidente e assegnare deleghe. Rispetto alla bozza iniziale, tuttavia, gli incentivi per le unioni sono fortemente ridotti: non è più prevista, infatti, alcuna agevolazione diretta ai fini del Patto, ma solo un indirizzo alle regioni affinché individuino misure volte a promuoverne la costituzione in sede di regionalizzazione verticale. Anche le fusioni fra comuni perdono la maggior parte delle premialità inizialmente contemplate: in pratica, l’unica facilitazione riguarda le possibilità di mantenere tributi e tariffe differenziati per ciascuno dei territori degli enti preesistenti, con l’obiettivo, però, di arrivare all’armonizzazione entro la fine del primo mandato amministrativo del nuovo municipio. Il disegno di legge, infine, prevede anche di avviare un percorso di monitoraggio dei circa 5 mila enti statali, regionali e locali «impropri», le cui funzioni, cioè, possono trovare un più razionale allocazione, per completare il percorso di razionalizzazione avviato nella scorsa legislatura

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