Con il d.lgs. n.81/2015 – uno dei decreti attuativi della legge delega n. 183/2014 ( job act)- è stato letteralmente riformulato l’art. 2013 del codice civile, rubricato “mansioni del lavoratore”.
La norma ante riforma prevedeva che il lavoratore doveva essere adibito “alle mansioni per le quali era stato assunto od a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia acquisito o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione” e sanciva “la nullità di ogni patto contrario” alle sue prescrizioni.
Nella vigenza del vecchio testo dell’art. 2103, le mansioni equivalenti – presuposto dell’esercizio legittimo dello ius variandi- erano unicamente anche secondo l’autorevole opinione della Cassazione – quelle per le quali «risultasse tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare, ed anche di arricchire, il patrimonio professionale precedentemente acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze» (Cass. 28 marzo 1995, n. 3623; Cass. 26 gennaio 1993, n. 9319).
Ed ancora, sul punto, la Cassazione ha ritenuto «Deve ritenersi che il concetto di equivalenza delle mansioni prescinda dalla riconducibilità in astratto delle mansioni al medesimo livello contrattuale…
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