La svolta di Patroni Griffi su licenziamenti e reintegro «Si pronuncino le Camere»

Pubblico impiego Rotture per motivi disciplinari, l’opzione «esame congiunto» Il testo di legge: sugli statali ipotesi indennizzo Premi al merito Via le griglie delle classi di merito, sarà il dirigente a scegliere chi premiare per il suo rendimento

Marcello Serra 20 Maggio 2012
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Il disegno di legge delega di riforma del pubblico impiego è pronto per essere presentato al Consiglio dei ministri la prossima settimana dal responsabile del dicastero Filippo Patroni Griffi.
Si tratta di un provvedimento snello, composto da sei articoli e 14 commi che conferma l’impostazione dell’intesa raggiunta con i sindacati all’inizio del mese, tranne su un punto: i licenziamenti disciplinari.
Su questa materia, dopo le polemiche sollevate soprattutto dal suo predecessore Renato Brunetta, l’attuale ministro ha deciso di utilizzare una formula neutra, suscettibile di interpretazione, affidandosi in questo modo alla volontà del Parlamento che a questo punto dovrà trovare una mediazione.

L’intesa sindacale
Si ricorderà che nell’intesa con i sindacati si offrivano ai dipendenti pubblici «garanzie di stabilità in caso di licenziamento illegittimo».
Insomma, in caso di licenziamento disciplinare illegittimo, l’intesa ipotizzava il reintegro e non l’indennizzo economico, con ciò divergendo rispetto al disegno di legge Fornero sul lavoro privato che prevede entrambi.
Una scelta che la relazione d’accompagnamento spiegava così: «Non è ipotizzabile un licenziamento illegittimo con conseguenze meramente risarcitorie, laddove il “prezzo” di tale licenziamento invece che dall’imprenditore privato sarebbe sopportato dalla collettività».

L’ipotesi del reintegro
La ragione che aveva spinto Patroni Griffi a preferire il reintegro all’indennizzo era che, a differenza del licenziamento fatto da un imprenditore privato, quello operato dal dirigente, e dichiarato illegittimo, finisce, in caso di indennizzo, per ricadere economicamente sulla collettività.
Con la conseguenza che, se si fosse deciso di dare la responsabilità di questo esborso al dirigente, questo avrebbe finito per non licenziare più nessuno.
Se invece si fosse deciso di sollevare il dirigente da ogni responsabilità economica del licenziamento risultato illegittimo, la norma sarebbe apparsa odiosa.

Le polemiche determinate da questa scelta devono aver convinto Patroni Griffi a non forzare la mano se, nel disegno di legge delega, le «garanzie di stabilità» sono scomparse, mentre è rimasta la volontà di riordinare la disciplina dei licenziamenti tipizzando le ipotesi legali e le relative tutele.
Utilizzando dunque, una formula neutra.
La valutazione dei dipendenti
Su altri due punti qualificanti della riforma, anch’essi sottoposti a numerose critiche soprattutto del centrodestra, il ministro non cede.
Il primo è quello dei sistemi di «misurazione e valutazione» delle performance.
Si tratta di modifiche, rispetto alle novità introdotte da Brunetta, che Patroni Griffi ha deciso dopo aver valutato i «problemi applicativi» delle attuali norme e la loro limitata estensione, circoscritta a 277 mila dipendenti su 3 milioni e 300 mila totali.

Il disegno di legge delega, in sostanza, mette da parte le griglie delle classi di merito, quasi automatiche, finora in vigore (e scarsamente utilizzate per la stasi della contrattazione collettiva), per tornare a un sistema di valutazione affidato al dirigente che sceglie chi premiare.
Questi, a sua volta, sarà giudicato per la performance del suo ufficio, in una sorta di sistema piramidale di responsabilità.
L’idea che sottende al cambiamento è che le griglie attuali premiano sempre i migliori di un ufficio e non chi, pur non essendo ancora tra quelli, compie dei passi avanti anche significativi.
La difficoltà di applicare questa parte della riforma, a causa del blocco del settore, potrebbe essere aggirata, in sede contrattuale, forzando l’attuale sistema automatico di progressione economica.
Ma al momento si tratta solo di un’ipotesi, di una direttiva che potrebbe essere data all’Aran, l’agenzia che negozia i contratti pubblici.

L’esame congiunto
Vi è un terzo aspetto dell’intesa con i sindacati che è stato molto criticato e attiene al loro coinvolgimento nei «processi di razionalizzazione, innovazione e riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni», espressamente finalizzato alla «partecipazione consapevole dei lavoratori» e a garantire la «trasparenza, ai fini dell’adozione delle necessarie misure di ottimizzazione organizzativa e riqualificazione della spesa delle amministrazioni pubbliche richieste dagli interventi di risanamento dei conti pubblici».

Si è parlato a questo proposito di un ritorno alla concertazione, dopo la stagione del «dialogo sociale» voluta dal governo Berlusconi e dai ministri Maurizio Sacconi (Lavoro) e Renato Brunetta.
Il disegno di legge delega interviene a confermare il modello scelto da Patroni Griffi quando, per i processi di riorganizzazione e ristrutturazione delle amministrazioni, prevede l’ipotesi dell’«esame congiunto».
In pratica esisterà un «vincolo di ascolto» dei sindacati ma non un vincolo di accordo con essi.
L’idea è che, trascorso un certo tempo, se l’esame congiunto non produrrà uno schema condiviso, l’amministrazione procederà per la propria strada.
L’impressione che si ha, leggendo tra le righe del disegno di legge delega, è che i processi di razionalizzazione della spesa pubblica, che sono in lavorazione in queste settimane con la spending review, determineranno decisioni che il governo non intende imporre, per evitare ulteriori tensioni sociali, e che preferisce condividere con il sindacato per renderle meno gravose.

I tempi
Tra le novità del ddl c’è anche la decisione di intervenire sulla disciplina di conferimento degli incarichi dirigenziali al personale esterno, allo scopo di limitare il fenomeno delle consulenze d’oro.
Ulteriori risparmi dovranno venire dalla concentrazione in un’unica scuola centrale delle attività di reclutamento e formazione dei dirigenti e dei funzionari.
Il disegno di legge delega dà al governo nove mesi per emanare uno o più decreti legislativi.
Entro due anni dalla entrata in vigore di questi ultimi, è prevista la possibilità che l’esecutivo adotti eventuali disposizioni integrative o correttive.

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