Alla fine dell’800 un uomo politico affermò che in Italia si erano modificati gli assetti costituzionali, ma non si riusciva a sopprimere una sottoprefettura o un ufficio giudiziario. Opinione tuttora attualissima. Rendere le pubbliche amministrazioni più efficienti, meno costose, meno soffocanti per cittadini e imprese, resta una delle questioni centrali per il Paese. Forse, la questione centrale, tenuto conto che qualunque sia il modello e il “peso” delle strutture pubbliche l’organizzazione amministrativa è una “rete” indispensabile nelle democrazie. Un anno fa il tema veniva posto al centro di Forum PA, con l’idea che le amministrazioni dovessero saper “fare rete” piuttosto che “essere rete” (maglie nelle quali ci si impiglia). Riformare dunque? Sì, ma abbandonando i progetti di palingenesi che hanno contraddistinto i pur meritori tentativi compiuti dal 1979 ad oggi, e operando simultaneamente su diversi fronti con occhio al fattore “tempo”. Pochi, semplici provvedimenti di legge, prevalentemente, sulle strutture: via le Province; diminuzione delle prefetture, unificando intorno ad esse gli uffici periferici dello Stato; soppressione e/o accorpamento di enti strumentali (in particolare nelle Regioni e negli enti locali); misure che rendano obbligatoria l’unificazione di servizi nei comuni minori. Tale disegno dovrà fare i conti con le resistenze della politica e del sottobosco che intorno ad essa alligna. Qui, o si procede, oppure ci si arrende. Più in là, si potrà ragionare su una distribuzione delle funzioni che alleggerisca il “profilo” delle istituzioni pubbliche, senza perderne il carattere di sistema di garanzia per la coesione sociale. Interventi decisi sul contenimento della spesa. La “soluzione Bondi” è, in sé, perfettamente plausibile, purché produca proposte concrete e praticabili. Tecnicamente l’uso di strumenti comparativi per le spese è già una realtà consolidata: l’attenzione va posta sull’esigenza effettiva di alcuni beni e servizi. La semplificazione non necessita di interventi normativi, quanto di una costante azione di manutenzione e dell’attuazione delle norme esistenti. Fa sorridere l’enfasi mediatica su una nuova regola semplificatoria, quando ne esistono centinaia inapplicate quasi ovunque. Sotto questo profilo il dipartimento della Funzione pubblica dovrebbe cambiare pelle. Oggi è, prevalentemente, una struttura che “produce circolari”. Dovrebbe diventare un soggetto che fa “circolare produzioni”: centro di trasmissione di buone pratiche, in grado di attivare la partecipazione delle amministrazioni nel confronto e nello scambio di esperienze. Un tema ineludibile è quello della valutazione. Brunetta ne fece giustamente una bandiera, ma le soluzioni si sono dimostrate poco praticabili, se non controproducenti. Una pletora di “piani” (da adottare e mettere in pratica); criteri di valutazione orientati prevalentemente sull’efficienza organizzativa; meccanismi premianti e sanzionatori rivolti quasi unicamente ai singoli operatori: un coacervo di norme che, invece di snellire l’operato delle amministrazione, rischia di strangolarle. Forse sarebbe il caso di focalizzare l’attenzione sulla valutazione dell’efficacia delle politiche, sugli output come piuttosto che sugli output. Sugli esiti dell’azione pubblica si focalizza, peraltro, l’attenzione dell’opinione pubblica. Benché le Pa siano cambiate il giudizio dei cittadini rimane severo. Alla base vi è un’incapacità comunicativa che condanna le amministrazioni ad avere una reputazione peggiore di quanto meritino. L’innovazione digitale è un altro nodo irrisolto, benché si tratti di un aspetto nodale che oltre a rappresentare un fattore essenziale per la competitività del Paese ha ricadute concrete sul contenimento dei costi delle amministrazioni. Da riprendere decisamente un elemento forte degli interventi normativi degli ultimi anni: la responsabilizzazione della dirigenza. Si deve prendere atto che nel complesso essa non riesce ad essere “dirigente”. A tale stato di fatto non è estranea la pesante ingerenza politica, che si manifesta sia nella forma della selezione “per demerito”, sia nella felpata azione di addomesticamento del funzionariato. Ciò, al netto dei fenomeni corruttivi che laddove esistono stravolgono il senso della pubblica funzione. Occorre, in ogni caso, evitare la scorciatoia della “compressione” retributiva nel settore pubblico. Si deve colpire in alto e dare ossigeno alla parte medio/bassa dei pubblici dipendenti. Su questo il “dividendo dell’efficienza” basta e avanza: si tratta di attuarlo. Le amministrazioni devono risparmiare e premiare gli impiegati più diligenti e produttivi. Se si fa bene, diventa più di una rivoluzione: una vera riforma.
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