L’argomento viene affrontato prima dal punto di vista della logica giuridica: ammettere la legittimità del licenziamento solo quando esso tenda ad evitare il fallimento dell’impresa, è costituzionalmente impraticabile e illogico, scrivono i giudici: infatti “in termini macroeconomici, nel lungo periodo e in regime di concorrenza l’impresa che ha il maggior costo di produzione è destinata ad essere espulsa dal mercato”. In altri termini non si può impedire all’imprenditore di perseguire il costante miglioramento dell’organizzazione aziendale pena, primo o poi, la chiusura dell’azienda.
L’organizzazione aziendale è perciò materia rimessa alla sola valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, visto che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’articolo 41 Costituzione. Al giudice spetta invece il controllo della reale sussistenza delle motivazioni proposte dall’imprenditore.
La sentenza della Cassazione del 7 dicembre, dopo aver fatto una panoramica delle più importanti pronunce di legittimità, sia contrarie, sia favorevoli, allarga anche il campo di indagine alla disciplina sovranazionale, richiamando l’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che così recita “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. E nella legislazione italiana non c’è nessun divieto del licenziamento motivato dal solo profitto. La Carta sociale europea, all’articolo 24, si limita a stabilire l’impegno delle parti contraenti a riconoscere il diritto dei lavoratori a non essere licenziati senza un valido motivo e tra essi pone quello “basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa”. Ancora una conferma dell’approccio meno restrittivo.
Non manca neppure la esemplificazione di alcuni casi concreti che, astrattamente potrebbero giustificare il licenziamento del lavoratore a fronte della esigenza della modifica della struttura organizzativa: per esempio la soppressione della funzione cui il licenziato era addetto, oppure la cd. esternalizzazione della sua attività a terzi, o la ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze, infine la innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto.
Si tratta di condizioni che non sono rare nella vita produttiva di molte aziende. Una pronuncia di questo genere ha la funzione di restituire all’imprenditore maggiori margini di autonomia, sciogliendolo da qualche laccio o lacciuolo che imbrigliava inutilmente la sua capacità di manovra. Una presa di posizione necessaria in un momento nel quale le imprese italiane si trovano a combattere spesso su mercati globalizzati e con concorrenti con molti meno vincoli normativi di loro. Un orientamento che, in prospettiva non può che migliorare la competitività del made in Italy, la redditività, e inevitabilmente, anche l’occupazione.
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