Sulla pubblicazione dei redditi dei dirigenti

Approfondimento di Gabriella Crepaldi

La pubblicazione dei redditi dei dirigenti pubblici nel sito internet istituzionale dell’Ente di appartenenza sembrava essere indispensabile ai fini della garanzia della trasparenza della Pubblica Amministrazione, tanto da farne oggetto di un obbligo stabilito dalla legge (art. 14, comma I, lett. f), d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33).
Sebbene il legislatore possa valutare, ex ante ed una volta per tutte, l’opportunità della pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali rispetto alle finalità della trasparenza e della lotta alla corruzione, non è escluso che la sua scelta sia sindacabile sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità.

Questi principi devono essere tenuti in considerazione dal legislatore quando è chiamato a bilanciare ed a contemperare diritti che hanno pari dignità costituzionale: nella specie, si tratta del diritto alla riservatezza dei dati personali, come diritto a controllare la circolazione di dati e informazioni sulla propria persona, e quello, opposto, di tutti i cittadini a conoscere i medesimi dati e le medesime informazioni in quanto riferibili alla pubblica amministrazione.
Che il legislatore, nell’imporre la pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali, non abbia bilanciato correttamente i diritti appena riportati è convinzione di alcuni dirigenti del Garante per la protezione dei dati personali che, davanti al TAR della Regione Lazio, hanno impugnato gli atti con i quali il loro datore di lavoro aveva chiesto di fornire i suddetti dati ai fini della pubblicazione; e in questa sede, hanno condiviso con il giudice amministrativo il dubbio di legittimità costituzionale della norma posta a fondamento della richiesta da parte del datore di lavoro (ord. caut., sez. I quater, 2 marzo 2017, n. 1030).

L’ANAC, che in un primo momento ha approvato le Linee guida di attuazione dell’art. 14 cit. senza prendere in considerazione l’ordinanza del TAR Lazio (deliberazione dell’8 marzo 2017), in un secondo momento (deliberazione del 13 aprile 2017) ne sospendeva l’efficacia in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale.
Il 21 febbraio 2019, con sentenza n. 20, la Corte Costituzionale ha affermato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis del d.lgs. n. 33 del 2013 e l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-ter del medesimo testo normativo.

>> CONTINUA A LEGGERE L’ARTICOLO INTEGRALE QUI.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *