L’esercizio dell’attività agricola del dipendente pubblico

Approfondimento di Paola Aldigeri

In questo articolo iniziamo a parlare del regime delle incompatibilità del dipendente pubblico prendendo spunto dalla recente ordinanza del Consiglio di Stato n. 2120 del 25 maggio 2023, che conferma l’ormai consolidato orientamento secondo il quale il dipendente pubblico a tempo pieno può esercitare attività agricola seppure nell’ambito di determinati limiti.
Al fine di comprendere le motivazioni per le quali spesso la giurisprudenza è intervenuta a dirimere controversie inerenti l’esercizio da parte di pubblici dipendenti di attività agricola (molto spesso a seguito di acquisizioni ereditarie di aziende agricole o appezzamenti di terreni), è utile sintetizzare il quadro normativo di riferimento del regime delle incompatibilità del pubblico dipendente.

Leggi sulla medesima questione:

Parte 2: “Il caso particolare dell’esercizio dell’attività agricola”

Cenni al regime di incompatibilità dei pubblici dipendenti

Il regime delle incompatibilità dei pubblici dipendenti trova fondamento – nell’attuale quadro ordinamentale – nell’articolo 53 del d.lgs. 165/2001.
Ai sensi di tale articolo, per i dipendenti pubblici, resta ferma la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, salve alcune deroghe previste dalla legge.
In particolare, l’articolo 60 del citato testo unico prevede che l’impiegato non possa “esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”.
Esiste, pertanto, nel nostro ordinamento un principio di esclusività del rapporto secondo il quale al dipendente pubblico viene richiesto di prestare la propria opera in via esclusiva a beneficio del datore di lavoro pubblico, principio riconfermato nel tempo fino ad oggi, la cui ratio risiede nella volontà del legislatore che tutte le energie del dipendente pubblico siano riservate all’espletamento dei compiti affidatigli dall’amministrazione.  Come, infatti, evidenziato dal Dipartimento della Funzione Pubblica, nell’ancora attuale parere espresso in data 20 dicembre 2005, n. 220, “il legislatore costituzionale ha posto, fra i diversi principi a tutela dell’interesse pubblico, che deve essere costantemente perseguito dalla pubblica amministrazione, quello del dovere di esclusività delle prestazioni dei propri dipendenti, nel senso dell’inconciliabilità tra l’impiego presso l’amministrazione pubblica ed il contestuale svolgimento di altre attività lavorative.”
Tuttavia, pur restando tale principio alla base del regime delle incompatibilità, nell’evolversi del contesto sociale e normativo, tale divieto di svolgimento di attività extra-istituzionali (c.d. incompatibilità assoluta) si è, nel tempo, parzialmente temperato attraverso l’introduzione di alcune deroghe previste dalla legge o altre fonti normative.
L’art. 53 del d.lgs. 165/2001 introduce, infatti, due tipologie di deroghe, ed in particolare:
  • la possibilità per i pubblici dipendenti di svolgere incarichi presso altre pubbliche amministrazioni, società o persone fisiche che svolgano attività di impresa o commerciale, previo rilascio di autorizzazione da parte della propria amministrazione, sulla base di criteri oggettivi e predeterminati, definiti nei propri regolamenti. Tali criteri devono tener conto della specifica professionalità, ed essere tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione, o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente (c.d. incompatibilità relativa);
  • la possibilità per i pubblici dipendenti di svolgere le attività di cui al comma 6 dello stesso articolo 53, senza necessità di acquisire previamente l’autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza, purché le stesse non si pongano in conflitto di interesse, anche potenziale, con la propria attività istituzionale (c.d. attività libere).
Al fine di verificare la possibilità di esercizio dell’attività professionale, nelle varie forme di lavoro autonomo, occorre distinguere tra due tipologie di dipendenti pubblici:

 

a) I dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno

 

Tra le deroghe al principio di esclusività del rapporto è prevista la fattispecie di cui all’articolo 1, comma 56, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, tuttora vigente.
In particolare, tale norma prevede che le disposizioni di cui all’articolo 53, comma 1, del d.lgs. 165/2001, nonché le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno.
Il successivo comma 56-bis dell’art. 1 della legge 662/1996 rafforza tale deroga, prevedendo l’abrogazione delle disposizioni che vietano l’iscrizione ad albi e l’esercizio di attività professionali per i soggetti di cui al comma 56 (dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno), mantenendo ferme le altre disposizioni in materia di requisiti per l’iscrizione ad albi professionali e per l’esercizio delle relative attività.
Lo stesso comma 56-bis precisa, tuttavia, che, ai dipendenti pubblici iscritti ad albi professionali e che esercitino attività professionale, non possono essere conferiti incarichi professionali da parte di altre amministrazioni pubbliche.
I dipendenti di amministrazioni pubbliche con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno possono, pertanto, iscriversi ad albi ed esercitare attività professionali con soggetti privati, previa acquisizione dell’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, che – in sede istruttoria – dovrà verificare l’insussistenza di conflitto di interessi, anche potenziale, con la specifica attività di servizio svolta dal dipendente (questa verifica non può mai venir meno).

 

b) I dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo pieno, o con prestazione lavorativa superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno 

 

Per i dipendenti di amministrazioni pubbliche con rapporto di lavoro a tempo pieno o parziale con prestazione superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno, vige il generale divieto di esercizio di attività professionale previsto dal d.P.R. 3/1957 e ribadito dall’art. 53, comma 1, del d.lgs. 165/2001.
Pur non esistendo nell’ordinamento una definizione di “attività professionale”, la lettura combinata delle norme civilistiche, fiscali e previdenziali, nonché l’intervento della giurisprudenza in merito, ha portato ad identificare la “professionalità” nei caratteri della abitualità, sistematicità/non occasionalità e continuità, senza necessariamente comportare la necessità che l’attività sia svolta in modo permanente ed esclusivo. L’esistenza dell’abitualità sussiste ogniqualvolta un soggetto ponga in essere con regolarità, sistematicità e ripetitività una pluralità di atti economici coordinati e finalizzati al raggiungimento di uno scopo, con esclusione quindi delle ipotesi di atti economici posti in essere in via meramente occasionale.
In generale, sono, pertanto, da considerare vietati ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche a tempo pieno e con percentuale di tempo parziale superiore al 50% (con prestazione lavorativa superiore al 50%) gli incarichi di lavoro autonomo che presentano le caratteristiche di abitualità e professionalità (vedi Corte dei Conti, sezione giurisdizionale Lombardia, sentenza 16 aprile 2015, n. 54).
Fatta salva la verifica di insussistenza di conflitto di interesse, anche potenziale, con l’attività istituzionale, restano – invece – suscettibili di autorizzazione i singoli incarichi di collaborazione per i quali non si rinvengano le caratteristiche di abitualità e professionalità, e purché gli stessi, considerati complessivamente nell’ambito dell’anno solare, non configurino – di fatto – un impegno continuativo con le caratteristiche della abitualità e professionalità.
In sintesi, per tali dipendenti, pur sussistendo un divieto assoluto di svolgimento dell’attività professionale (con apertura di partita IVA), resta la possibilità di svolgere, previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, un incarico di collaborazione privo delle caratteristiche di abitualità e professionalità (senza apertura di partita IVA) a favore di altri soggetti (quindi occasionale), purché compatibile con le mansioni istituzionali svolte ordinariamente alle dipendenze del proprio ente.
Al fine di qualificare l’impegno modesto e non abituale, è opportuno dotarsi di criteri regolamentari per circoscrivere gli incarichi autorizzabili dall’ente. A tale proposito, si potrebbe inserire un limite in giornate annue (eventualmente quantificabili anche nelle ore corrispondenti di lavoro) e, in alternativa o contestualmente, individuare un limite retributivo annuo, in percentuale e non prevalente rispetto alla retribuzione annua percepita dal dipendente.
Per quanto riguarda l’iscrizione ad un albo professionale, questa può essere ritenuta un idoneo presupposto all’abitualità delle prestazioni, ma non è condizione sufficiente per qualificare l’attività come “abituale”. Tant’è che il DFP ritiene compatibile, salvo divieti espressi (vedasi, per esempio, quanto previsto per l’albo degli avvocati), la mera iscrizione all’albo professionale, sempre che quest’ultima non denoti, di per sé, l’esercizio della relativa attività professionale (vedi circolari n. 3/1997 e n. 6/1997).
Nel caso particolare di incarichi di lavoro autonomo riferibili a libere professioni per le quali è prescritta l’iscrizione ad albi, le interpretazioni in merito alla possibilità di autorizzare singoli incarichi di collaborazione per i quali non si rinvengono le caratteristiche di abitualità e professionalità sono state riconducibili alle seguenti:
a) tali incarichi possono essere autorizzati, purché, considerati complessivamente nell’ambito dell’anno solare, non configurino – di fatto – un impegno continuativo tale da simulare una attività con caratteristiche della abitualità e professionalità (tesi maggioritaria, per la quale si applica la regola generale);
b) pur potendo i dipendenti pubblici iscriversi agli albi professionali (quando le norme che disciplinano le singole professioni lo consentono), tali incarichi non possono essere mai autorizzati, ossia sono “intrinsecamente vietati”, in quanto comunque annoverabili tra le attività libero professionali, assolutamente vietate dal citato art. 60 del d.P.R. 3/1957 (tesi minoritaria).

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