Albo avvocati chiuso alla Pa

Fonte: Il Sole 24 Ore

Il divieto di iscrizione all’albo degli avvocati per i dipendenti pubblici part-time, soddisfa l’interesse pubblico a difendere l’indipendenza del legale.
Le sezioni unite della Cassazione (sentenza 11833) difendono le incompatibilità previste dalla legge 339/2003, che vieta ai dipendenti della pubblica amministrazione a “mezzo servizio”, di svolgere la professione forense.
La Suprema Corte riunisce e respinge una serie di ricorsi, avallando la scelta del Consiglio nazionale forense di confermare la cancellazione dall’albo di chi non aveva esercitato l’opzione per l’una o l’altra attività.
I giudici smontano le molte obiezioni mosse dai diretti interessati che si appellavano alle norme più favorevoli.
La legge 339 del 2003 ha, in effetti, dettato un contrordine rispetto a quanto previsto dalle «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica» (legge 662/1996) che sfilavano dal regime delle incompatibilità i dipendenti della Pubblica amministrazione a tempo parziale.
Un salvacondotto a cui si erano appellati i ricorrenti iscritti all’albo durante il regime favorevole, chiedendo per questo di salvaguardare i diritti acquisti e il loro legittimo affidamento.
I ricorrenti avevano visto uno spiraglio anche nella manovra d’agosto (Dl 138/2011) e nel Dpr professioni (137/2012), portatori di una ventata liberalizzatrice che subordinava lo svolgimento della libera professione al solo possesso dei titoli: per il Dpr 137/2012, in particolare, la libera professione poteva essere esercitata in maniera sia abituale sia prevalente. I soli paletti riguardavano le condanne penali e i motivi di interesse generale.
Su quest’ultimo si infrangono le speranze dei ricorrenti.
La Suprema corte si pone due domande: se lo “ius superveniens” abbia tacitamente abrogato la legge “scomoda” e se l’esigenza di scongiurare il rischio di avere avvocati poco indipendenti possa essere considerata «motivo imperativo di interesse generale». La prima risposta è no e la seconda è sì, e l’una è il risultato dell’altra.
La Suprema Corte esclude che la legge 339/2003 possa essere stata implicitamente abrogata proprio perché l’incompatibilità tra l’impiego pubblico part-time e l’esercizio della professione forense risponde a esigenze specifiche di interesse pubblico «correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata e ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente». Ad avviso del collegio la legge 339/2003 fa da scudo a interessi di rango costituzionale, come l’imparzialità e il buon andamento della Pa, oltre che all’indipendenza dell’avvocato da poteri che potrebbero mettere in dubbio la correttezza della difesa causa dei possibili conflitti tra interessi pubblici e privati. Inutile anche il tentativo dei ricorrenti di sollevare contrasti sia con la Carta e con il diritto dell’Unione.
La Cassazione ricorda che la Corte costituzionale, si è espressa sul punto con due sentenze (390/2006 e 166/2012): con la prima ha considerato il divieto coerente con la peculiarità della professione e con la seconda ha affermato la possibilità di modificare in senso meno favorevole norme più “permissive”, pur di non sfociare in regolamenti irrazionali. Un’irragionevolezza esclusa dal lasso di tempo concesso per esercitare l’opzione. Va male anche sul fronte comunitario: la Corte di giustizia con la sentenza C-225/09 ha dato il suo nulla osta a una limitazione prevista anche dal nuovo ordinamento forense.

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