Spending review, un colabrodo

Fonte: Italia Oggi

La spending review così non va. Perché, pur contenendo norme in alcuni casi destinate a entrare in vigore nel 2016 e necessitando di 20 dpcm, 15 decreti ministeriali, 4 deleghe legislative per essere attuata, ha assunto la forma del decreto legge. E poi perché è stata infarcita di termini inglesi nonostante il divieto di usare parole straniere nella formulazione dei testi legislativi a meno che non siano diventate di uso comune in italiano (cosa difficile da dimostrare per espressioni quali «e-procurement», «in house providing», «payment by results» e «risk sharing»). E ancora perché un testo del genere non è stato sufficientemente corretto in parlamento nonostante i tanti punti deboli che potrebbero esporlo in futuro a impugnazioni e ricorsi (a cominciare dai tempi per la procedura di riordino delle province fino al mancato rispetto delle prerogative delle regioni a statuto speciale). Questi i rilievi della camera dei deputati sulla spending review, messi nero su bianco nei pareri licenziati nei giorni scorsi dalle commissioni e dal comitato per la legislazione di Montecitorio. Parole destinate tuttavia a cadere nel vuoto visto che oggi il decreto sulla revisione della spesa pubblica taglierà il traguardo dell’approvazione definitiva grazie alla 34esima fiducia chiesta dal governo Monti. Il dl 95, trasmesso alla camera senza alcuna chance di essere modificato rispetto al testo del senato, diventerà quindi legge con tutto il carico di riserve di metodo e di merito che il grande lavoro emendativo di palazzo Madama non è riuscito a correggere. In alcuni casi si tratta solo di mancanza di coordinamento tra vecchie e nuove disposizioni che si sovrappongono su alcune materie specifiche (acquisto di beni e servizi da parte della p.a., taglio degli organici, taglio alle spese per le autoblu, tetto agli stipendi dei dipendenti e dei manager delle società pubbliche). In altri i vizi potrebbero avere conseguenze ben più gravi, compresa l’impugnazione davanti alla Consulta.Riordino delle province. Il comitato per la legislazione presieduto dal deputato Pd Doris Lo Moro punta il dito sulla nuova tempistica per il riordino delle province disegnata dal maxiemendamento approvato al senato. Qui la contraddizione è data dal fatto che i termini relativi alle prime tre fasi del procedimento decorrono dalla data di pubblicazione della delibera governativa sui criteri di riordino (24 luglio), il che sposta al 25 ottobre 2012 la dead line entro cui le regioni dovranno presentare le proposte di accorpamento. Mentre il termine dell’ultima fase (adozione del provvedimento di riordino da parte del governo) scade 60 giorni dopo l’ entrata in vigore della legge di conversione della spending review. E quindi verosimilmente a inizi ottobre, con l’effetto paradossale che il termine per l’adozione dell’atto del governo verrebbe a spirare prima di quello per la presentazione dei piani di riordino. Tagli alle regioni a statuto speciale. L’art.16 del dl 95, nella parte in cui fissa gli obiettivi di risparmio delle regioni autonome per il triennio 2012-2014, stabilisce che, in caso di mancato accordo tra queste e il governo, l’accantonamento sia effettuato con decreto del Mef da varare entro il 15 ottobre 2012 in proporzione alle spese per consumi intermedi del 2011. Il comitato per la legislazione chiede di valutare la compatibilità di tale norma con l’art.27 della legge delega sul federalismo fiscale che impone l’adozione di procedure concordate per l’applicazione della normativa statale alle regioni a statuto speciale. Tanto più che, si legge nel parere, «la violazione del vincolo che impone l’adozione delle procedure pattizie di attuazione statutaria è la motivazione principale alla base della recente sentenza (n.178/2012) con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di una norma del dlgs 118/2011 recante disposizioni sull’armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio di regioni ed enti locali». Abuso dei decreti legge. Quelle fin qui esaminate sono contraddizioni tecniche, ma c’è un vizio di fondo nella spending review che Monti ha sempre ignorato e su cui i deputati pongono l’accento: la necessità (ribadita più volte anche dal presidente della repubblica, Giorgio Napolitano) di porre un freno alla decretazione d’urgenza e alla tendenza da parte dei governi di turno a blindare i testi a colpi di fiducia. Qui il comitato per la legislazione non fa sconti e ritiene imprescindibile che i decreti legge contengano norme di immediata applicabilità, tali da giustificare l’utilizzo del dl. Ma come conciliare questo auspicio con l’entrata in vigore a tappe della spending che dispiegherà i suoi effetti a partire dai prossimi giorni e fino al 2016? Insomma, a giudizio dei deputati, ci fosse stato tempo e voglia di riaprire il cantiere del provvedimento non sarebbe mancata materia su cui intervenire. E lo dimostrano i 160 emendamenti presentati per l’aula e ignorati dall’esecutivo nel momento in cui il ministro dell’economia, Vittorio Grilli, ha posto la questione di fiducia. La funzione di Montecitorio, lo si sapeva dall’inizio, sarebbe stata solo quella di chinare il capo e asseverare il decreto. Ma prima i parlamentari hanno voluto togliersi qualche sassolino dalle scarpe.

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