Sede di lavoro e non unità produttiva per il trasferimento del lavoratore che assiste un familiare

Approfondimento di M. Lucca

L’articolo 33, comma 5 della Legge 5 febbraio 1992, n. 104, «Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate» recita testualmente «Il lavoratore di cui al comma 3 (ovvero, «il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti», con l’aggiunta che per «l’assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi») ha diritto a scegliere ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede».
La norma – nella sua essenzialità – intende garantire il diritto di assistere i propri familiari in stato di bisogno, assicurando una priorità (c.d. posizione di vantaggio): un vero e proprio diritto soggettivo di scelta della sede di servizio da parte del familiare -lavoratore che presta assistenza con continuità a persone che sono ad esse legate da uno stretto vincolo di parentela o di affinità, con una evidente centralità del ruolo della famiglia nell’assistenza del disabile e, in particolare, nel soddisfacimento dell’esigenza di socializzazione, quale fondamentale fattore di sviluppo della personalità e idoneo strumento di tutela della salute del disabile intesa nella sua accezione più ampia.
Infatti, qualora il permesso riconosciuto al lavoratore in ragione dell’assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa, non per un utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per detta assistenza, non venga utilizzato per attendere alle esigenze dell’assistito si integra a carico del lavoratore l’abuso del diritto per la violazione dei principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente di previdenza, con rilevanza anche ai fini disciplinari.

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