Consulenze p.a., vietato scegliere sempre gli stessi

Fonte: Italia Oggi

Nella scelta di avvalersi di consulenti esterni, appare estremamente incongruo nella fase valutativa delle candidature che la pubblica amministrazione non esprima una specifica preferenza in ordine al titolo di studio posseduto, ma destini specifica preparazione nel settore in cui si richiede detta consulenza.
Infatti, operando in tal modo, l’amministrazione pubblica finisce per giovarsi dei medesimi soggetti.
Lo scopo cui deve tendere l’agire pubblico è quello di assicurarsi il miglior profilo possibile, attraverso un giudizio complessivo sull’intero curriculum del candidato e non che un singolo aspetto sia sufficiente a sorreggere l’intera valutazione.
Anzi, nel settore dei fondi europei, si assiste sempre più a una costante reiterazione di apporti professionali esterni all’organico della p.a., a scapito degli uffici già preposti e che sono in grado di curare i predetti progetti.È quanto ha affermato la Corte dei conti, sezione centrale di controllo di legittimità sugli atti delle amministrazioni dello stato, nel testo della recente deliberazione n.
10/2013, con cui ha ricusato il visto e la conseguente registrazione ad alcuni contratti di consulenza esterna sottoscritti dal dipartimento per le pari opportunità, nell’ambito di programmi operativi co-finanziati con fondi europei.
Nei casi in esame, le doglianze della magistratura contabile si sono soffermate sui requisiti ritenuti necessari per l’espletamento dell’attività lavorativa.
Posto che il dipartimento individua i soggetti attraverso l’immissione delle autocandidature in una «long list», è il passo successivo che desta perplessità.
In pratica, se da un lato il dipartimento non esprime una specifica preferenza in ordine al titolo di studio (e quindi i collaboratori selezionati sono muniti di diverso diploma di laurea), dall’altro si richiede, invece, una specifica preparazione nel settore delle «pari opportunità».
Specializzazione, scrive la Corte, che possiedono solo coloro che abbiano già ricoperto lo stesso tipo di consulenza.
Ne consegue che in tal modo l’amministrazione «finisce per giovarsi, in modo più o meno continuo, sempre degli stessi soggetti».Se tale modus operandi può farsi rientrare nella discrezionalità dell’azione amministrativa, è altresì pacifico che la stessa deve muoversi entro i binari del buon agire, della razionalità e della trasparenza.
L’obiettivo, ovvero l’interesse, che l’amministrazione pubblica deve perseguire è quello di pervenire all’individuazione delle migliori risorse disponibili che, non necessariamente, coincidono con chi ha già operato presso la stessa p.a. Richiedere e attribuire un ulteriore punteggio a una specifica professionalità nella materia oggetto della consulenza, pone, a detta della Corte, in una situazione «deteriore» tutti coloro che, pur muniti di titoli culturali di elevato valore e di adeguate esperienze professionali, non abbiano già svolto tale specifica attività.
Lo scopo della p.a. è quello di assicurarsi il miglior profilo professionale, attraverso un giudizio che implichi la valutazione delle complessive qualità dei soggetti, evitando che un singolo aspetto di cui si compone il curriculum, sia sufficiente a sorreggere il giudizio complessivo.
A questo quadro, la Corte aggiunge che, nel caso di fondi europei, «si assiste a una costante reiterazione di apporti professionali esterni, vale a dire una sorta di provvista parallela di personale», a scapito di una struttura stabile dell’ufficio che è in grado di curare direttamente tali progetti.

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