Tranquilli, non si taglia

Fonte: Corriere della sera

Una domanda, una richiesta, una speranza.
Che fine ha fatto, in questa tostissima campagna elettorale, la
spending review? È possibile
sapere dai partiti, dagli schieramenti, quali sono le loro idee in proposito? Perché ci auguriamo che, nella foga di un confronto così serrato
e pieno di temi, ci si sia
solo momentaneamente dimenticati del capitolo «tagli e risparmi».
Non siamo così ingenui da non sapere che, in una campagna elettorale, è meglio parlare di tasse da togliere e soldi da dare che non di cinghie da tirare (ancora!) e tagli da operare.
Del resto, una che di queste cose si intende, Margaret Thatcher, ebbe a dire un giorno che «nessuno si ricorderebbe del Buon Samaritano, se avesse avuto solo buone intenzioni.
Aveva anche i soldi».

E dunque, tutti a vestire i panni di samaritani buoni e disponibili, almeno fino al 25 febbraio, quando le urne si chiuderanno e si vedrà chi ci ha convinti di più.
Poi, è la storia di sempre, la musica cambierà e la Realtà tornerà a rammentare a vinti e vincitori che alcune cose si possono fare e altre – anche se annunciate, strombazzate, promesse – no.
Questione di «compatibilità», una delle parole magiche usate per far svanire in un attimo ciò che si è messo sul tavolo da mesi.
Ma facciamo un passo indietro e torniamo a un anno fa, quando Mario Monti – varata la drastica riforma delle pensioni e nel pieno dell’operazione «Salva Italia» – comincia a parlare di spending review, ovvero di un’operazione profonda di revisione (razionalizzazione e riduzione) dei costi dell’enorme macchina pubblica.
Viene incaricato il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda.
Il 30 aprile il Consiglio dei ministri nomina Enrico Bondi commissario per la spending review e fissa per il 2012 l’obiettivo di tagliare 4,2 miliardi.

Il 2 maggio Palazzo Chigi vara la consultazione online con i cittadini per raccogliere i loro suggerimenti: in pochi giorni arrivano 130 mila segnalazioni di possibili interventi.
Un successo di popolo che spinge Monti ad andare avanti.
Il 5 luglio, infatti, il governo vara il decreto legge per risparmiare 4,5 miliardi nel 2012, 10,5 miliardi nel 2013 e 11 nel 2014 e annuncia un ulteriore provvedimento che verrà preso sulla base delle relazioni preparate dall’economista Francesco Giavazzi (incentivi alle imprese) e da Giuliano Amato (spese di partiti e sindacati).

Il decreto taglia su acquisti di beni e servizi, riduce del 20% i dirigenti e del 10% i dipendenti della Pubblica amministrazione, dimezza il parco auto blu, sforbicia gli affitti delle varie amministrazioni, limita a non più di 3 i membri dei consigli di amministrazione delle società pubbliche, interviene sulle spese di ministeri ed enti locali e su quelle della sanità, dà una sfoltita alle province.

Il decreto diventa legge il 7 agosto.
Ma l’invisibile ragnatela imbastita da chi ha interesse a lasciare le cose come stanno piano piano comincia a paralizzare ogni azione.
Il taglio delle province viene bloccato dai partiti, la riduzione dei dipendenti pubblici manca di alcuni degli atti previsti, causa crisi di governo (ma poi?), della relazione Giavazzi si son perse le tracce.

Nel fact checking del Corriere, il Pdl ha detto che intende ridurre la spesa pubblica, oggi di circa 800 miliardi l’anno, del 10% in 5 anni.
Il cuore dell’operazione consiste in una riduzione massiccia del debito pubblico, tale da incidere «sullo stock e sui flussi».
Bersani, invece, il 26 gennaio ha affermato che «questa spending review è stata fatta per modo di dire.
Dobbiamo mettere il cacciavite dentro la spesa pubblica e vedere le priorità».
Monti si rifà, nella sua agenda, a quanto fatto, insistendo sul fatto che la spending review «deve diventare un metodo ordinario per la gestione corretta ed efficiente delle amministrazioni pubbliche, prima fra tutte quella statale».
Ora, sinceramente, mentre i partiti si sbranano sul taglio dell’Imu e dell’Irpef, sulle misure per favorire la ripresa, sulle pensioni, sul mercato del lavoro, sul debito, sull’Europa buona o cattiva, sull’euro, sulla Merkel, sulla patrimoniale e adesso anche sul Monte dei Paschi, qualcuno può dire di aver sentito parlare davvero di spending review? Se non niente, poco.
Troppo poco per un Paese dove la moralizzazione della politica deve venire assai prima, perché ne è la base, del risanamento economico.
«La virtù affascina, ma c’è sempre in noi la speranza di corromperla», diceva quel polemista di Leo Longanesi.
Uno che gli italiani li conosceva.

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