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Legittima una minore retribuzione per contratti di formazione e Lsu

Fonte: Il Sole 24Ore

I contratti di formazione e i lavoratori socialmente utili non rientrano nell’accordo-quadro europeo sul lavoro a tempo determinato del 1999. E dunque non sono sottoposti alle relative limitazioni. Perciò la corresponsione di una indennità inferiore alla retribuzione prevista per lo svolgimento della medesima mansione da parte di lavoratori assunti sulla base del normale contratto di categoria non è contraria alle regole europee. Lo ha stabilito la Corte di giustizia europea, con la sentenza 15 marzo 2012, Causa C-157/11.

Il caso di partenza
A sollevare la questione è stato un lavoratore socialmente utile impiegato, dal 1° luglio 1998 al 29 gennaio 2002, presso il servizio di stato civile del Comune di Afragola in provincia di Napoli, percependo una indennità inferiore alla retribuzione dei dipendenti veri e propri dello stesso Comune. Dopo essere stato “stabilizzato”, il lavoratore aveva agito contro il comune per ottenere le differenze retributive, sostenendo che vi sarebbe stata una violazione dell’accordo quadro europeo.
Interpellato, il Tribunale di Napoli ha rinviato la questione alla Corte di giustizia per stabilire se il rapporto tra i lavoratori socialmente utili e le amministrazioni pubbliche rientri o meno nell’ambito di applicazione dell’accordo quadro.
Per il Comune, il governi italiano e la Commissione, la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro non si applicano in quanto il legislatore dell’Unione, ha deciso di dare alle nozioni di «rapporto di lavoro» e di «lavoratore» il senso attribuito dalla normativa nazionale, dai contratti collettivi e dalla prassi nazionale in vigore nello Stato membro interessato. Assicurando dunque ai paesi membri una certa libertà di manovra.

I lavoratori socialmente utili
I lavori socialmente utili, definiti dal Dlgs 468/97, svolgono «le attività che hanno per oggetto la realizzazione di opere e la fornitura di servizi di utilità collettiva, mediante l’utilizzo di particolari categorie di soggetti». E cioè: i lavoratori licenziati, iscritti nelle liste di mobilità, i lavoratori di imprese la cui attività è sospesa per ristrutturazione, riorganizzazione o trasformazione, per crisi. Gli Lsu, infine, hanno diritto ad un’indennità mensile fissa, versata dall’Istituto nazionale della previdenza sociale e finanziata dal Fondo nazionale per l’occupazione.
La motivazione della Corte
La Corte ha chiarito in primis che l’accordo quadro è inteso a delimitare il ripetuto ricorso a contratti a tempo determinato, prevedendo disposizioni di tutela minima volte ad evitare la precarizzazione dei lavoratori dipendenti. Tuttavia, per beneficiare di una tale tutela è necessario che il rapporto di lavoro rientri nell’ambito di applicazione di tale accordo.
E comunque, precisano i giudici di Lussemburgo, l’accordo quadro conferisce un margine di discrezionalità agli Stati membri che hanno la facoltà di sottrarne dal campo di applicazione i rapporti di formazione professionale nonché i contratti definiti nel quadro di un programma che usufruisca di contributi pubblici.
E siccome in questo caso vi erano effettivamente in gioco dei fondi pubblici, la Corte ha ritenuto che l’accordo quadro non osta alla normativa italiana che esclude gli Lsu dall’ambito di applicazione della normativa europea.

Il principio espresso
In definitiva per i giudici: “La clausola 2 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che compare in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che prevede che il rapporto costituito tra i lavoratori socialmente utili e le amministrazioni pubbliche per cui svolgono le loro attività non rientri nell’ambito di applicazione di detto accordo quadro, qualora, circostanza che spetta al giudice del rinvio accertare, tali lavoratori non beneficino di un rapporto di lavoro quale definito dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi nazionale in vigore, oppure gli Stati membri e/o le parti sociali abbiano esercitato la facoltà loro riconosciuta al punto 2 di detta clausola”.


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