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Un dirigente su due è a contratto
Il 45% dei manager locali non è autonomo dalla politica

Fonte: Italia Oggi

Sono circa la metà dei dirigenti di ruolo quelli a contratto del comparto regioni enti locali. Per la precisione, secondo i dati della Corte dei conti, sezioni riunite, delibera n. 13/2012/Contr/Cl contenuti nella relazione sul costo del lavoro pubblico 2012, nel 2010 su 6.884 dirigenti di ruolo, nel comparto ben 2.199 sono dirigenti a tempo determinato, per un’incidenza pari al 32%.
Ma, aggiungendo anche i 902 dirigenti extra dotazione organica, tale incidenza sale al 45%.
La Corte dei conti conferma, dunque, che regioni ed enti locali sono distantissimi dall’attuare le indicazioni ripetutamente espresse dalla Corte costituzionale sulla dirigenza a tempo determinato, considerata un elemento di debolezza del sistema, perché incide negativamente sul principio della continuità amministrativa e risulta legata eccessivamente da un rapporto fiduciario con la politica, tale da lederne l’autonomia.
Appare piuttosto evidente che comuni, province e regioni abbiano attinto a piene mani alla possibilità di assumere dirigenti di fiducia a tempo determinato, costituendo un vero e proprio «apparato parallelo» a quello di ruolo. Ciò, in particolare, soprattutto per effetto dell’articolo 110, comma 1, del dlgs 267/2000 che consentendo, prima della riforma-Brunetta, di assumere senza limitazione alcuna i dirigenti a contratto, ha permesso a moltissimi enti di insediare ai vertici amministrativi dirigenti esterni, senza porsi minimamente il problema di un tetto numerico.
L’incidenza della dirigenza a contratto pari complessivamente al 45% del totale, come si nota, è lontanissima dal tetto inizialmente posto dal dlgs 150/2009 al solo 8%.
Si spiegano, dunque, le insistenze dell’Anci e dei sindaci in particolare, per ottenere dal legislatore un ampliamento delle quote di dirigenti da assumere a contratto, nonostante le pronunce della Corte costituzionale. Come si ricorda, un primo ampliamento, fino al 18%, era stato ammesso dall’articolo 1 del dlgs 141/2011, ma solo per gli enti locali considerati virtuosi da un dpcm che ancora non ha visto la luce. Un secondo ampliamento, dunque, è stato invocato e ottenuto dalle autonomie locali con l’articolo 4, comma 13, del dl 16/2012, convertito in legge 44/2012 (il decreto fiscale), che apparentemente estende di poco la percentuale iniziale dell’8%, prevedendo un 10% per gli enti locali con oltre 250 mila abitanti, espandibile al 13% per gli enti con popolazione tra 100 mila e 250 mila e portato al 20% per gli altri enti.
Ma, in realtà, proprio perché anche il 20% (incidenza della dirigenza a contratto comunque più che doppia di quella ammessa nello stato) è lontanissimo dalla percentuale effettiva di dirigenti a contratto operanti negli enti locali, il citato articolo 4, comma 13, ha posto in essere una vera e propria mini-sanatoria: consente, infatti, agli enti locali di confermare tutti, ma proprio tutti, i dirigenti con contratti in scadenza al 31/12/2012, riproponendo la percentuale-monstre di dirigenti a contratto di matrice fiduciaria.
Per altro, esattamente come avviene presso le varie agenzie nazionali, grandissima parte della dirigenza a contratto non proviene nemmeno da selezione di particolari e spiccate competenze professionali attinte al di fuori delle dotazioni organiche, come prevederebbe l’articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001, allo scopo di integrare e arricchire la qualità e il plafond di capacità della dirigenza di ruolo. Spiegano le sezioni riunite nella relazione che «oltre la metà delle assunzioni nell’ambito della dirigenza a tempo determinato deriva dall’attribuzione di incarichi a personale interno ai singoli enti». Insomma, delle vere e proprie progressioni verticali di fatto, realizzate senza alcuna specifica selezione, spesso occasione per premiare fedeltà e consonanza del dirigente cooptato all’organo di governo di turno.


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