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Violazione dei termini al contratto a tempo determinato
La Corte di Cassazione (Sez. Lavoro con sentenza n. 20684/2020) quantifica il risarcimento del danno e gli interessi

La violazione dei termini dei contratti a tempo determinato comportando la violazione delle disposizioni di cui all’art. 36 del d.lgs. 165/2001, espone l’ente al conseguente risarcimento del danno per i contratti a termine stipulati in modo illegittimo. Diversamente dalle statuizioni dei giudici di appello, che hanno ritenuto di applicare quale risarcimento del danno le mensilità previste per la violazione di cui all’art.18 dello statuto dei lavoratori (pari a 15 mensilità), la Cassazione (sentenza n. 20684/2020) ha deciso in modo diverso. Ha, infatti, precisato che, ai fini del risarcimento del danno, deve essere fatto riferimento alla disciplina prevista dall’art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010 che riguarda il ristoro al dipendente in caso di illegittima apposizione del termine. La disposizione legislativa, peraltro, prevede un risarcimento predeterminato tra un minimo ed un massimo, con esonero da parte del lavoratore dell’onere della prova, fermo restando che rimane impregiudicato il suo diritto di provare di aver subito danni ulteriori. Inoltre, sempre per la Cassazione, va ribadito come, per i dipendenti pubblici, sussiste il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria e interessi.

La vicenda

Una dipendente assunta con contratti a tempo determinato, svolgente le funzioni di autista di scuolabus, ha presentato ricorso al giudice del lavoro lamentando l’illegittimità dell’apposizione dei termini sui contratti di lavoro stipulati con l’Ente locale. A differenza del Tribunale di primo grado, che ha condannato l’ente locale al pagamento di sei mensilità, la Corte di appello ha rideterminato l’importo del risarcimento, facendo riferimento alle disposizioni di cui all’art. 18 Statuto dei lavoratori e, per l’effetto, ha condannato il Comune al pagamento in favore dell’appellante di quindici mensilità, oltre interessi legali sulle somme rivalutate dalla data di cessazione, dell’ultimo rapporto con l’Ente locale, fino al saldo. Secondo i giudici di appello, infatti, l’unica alternativa alla trasformazione del contratto sarebbe rappresentata – in coerenza con le indicazioni europee – dall’applicazione al datore di lavoro di una sanzione economica avente al contempo la funzione di ristorare il lavoratore dal pregiudizio subìto per il solo fatto della reiterata violazione della legge e quella di dissuadere lo stesso dal ripetere l’operazione vietata.

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