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Coronavirus: smart working, salta la copertura normativa
La tumultuosa concatenazione delle disposizioni adottate negli ultimi giorni per fare fronte alla incalzante emergenza del Covid-19 rischia di far saltare la fonte normativa delle misure di snellimento per il ricorso al lavoro agile

di AMEDEO DI FILIPPO (dal Sole 24 Ore) – In collaborazione con Mimesi s.r.l.

La tumultuosa concatenazione delle disposizioni adottate negli ultimi giorni per fare fronte alla incalzante emergenza del Covid-19 rischia di far saltare la fonte normativa delle misure di snellimento per il ricorso al lavoro agile, ossia quella che ne consente l’avvio senza passare per la stipula dell’accordo individuale e l’altra che rende possibile l’informativa per via telematica.

Le norme
Da tutti evocato e invocato, quasi debba essere la panacea di tutti i mali causati dall’isolamento, il lavoro agile è regolato dal Capo II della legge 81/2017, che consente di eseguire la prestazione lavorativa in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa. Grazie al comma 3-bis inserito all’articolo 18 dalla legge 145/2018, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti a riconoscere priorità alle richieste formulate dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità ovvero dai lavoratori con figli disabili. Il lavoro agile trova applicazione anche nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, ma in questo ambito sembra aver destato non troppo interesse. È anche per questo che la stessa legge di bilancio 2019, all’articolo 14, ha impegnato le Pa ad adottare misure organizzative volte a fissare obiettivi annuali per l’attuazione del telelavoro e per la sperimentazione di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa. Obiettivo: permettere, entro tre anni, ad almeno il 10% dei dipendenti di avvalersi di tali modalità. Con la direttiva n. 3 del 2017 sono state approvate le linee guida contenenti le regole inerenti l’organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti. Sul tema è intervenuta la Ministra per la pubblica amministrazione con la circolare n. 1 del 4 marzo scorso per fornire alcuni chiarimenti sulla implementazione delle misure normative e sugli strumenti a cui le Pa possono ricorrere per incentivare il ricorso a “modalità più adeguate e flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa”, con riferimento alle misure di gestione dell’emergenza contenute nel Dpcm del 1° marzo.

Le disposizioni d’urgenza
Il Governo Conte ha intanto emanato il Dl 6/2020 che individua alcune misure urgenti per evitare la diffusione del Covid-19 e che al primo comma dell’articolo 3 ne rinvia l’adozione ad appositi Dpcm. Il primo è del 23 febbraio e all’articolo 3 ha disposto l’applicazione automatica del lavoro agile a ogni rapporto di lavoro nelle aree a rischio, nel rispetto degli articoli da 18 a 23 della legge 81/2017, «anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti» con informativa resa in modalità telematica. È stato poi emanato il Dpcm 25 febbraio il cui articolo 2 ha esteso la modalità “super-agile” ai lavoratori delle regioni focolaio. Nel successivo Dpcm 1° marzo nulla è previsto per i Comuni delle zone rosse, mentre per il resto del territorio nazionale l’articolo 4 ripropone la possibilità del lavoro agile per tutti i rapporti di lavoro anche in assenza degli accordi e con informativa telematica (comma 1, lettera a). Con il Dpcm 4 marzo cessano di produrre effetti gli articoli 3 e 4 del Dpcm precedente (articolo 4, comma 2) e a sua volta ripropone le stesse disposizioni per il lavoro agile alla lettera n) dell’articolo 1. La medesima tecnica viene ripercorsa dal Dpcm 8 marzo, che dispone la cessazione in via integrale dei Dpcm 1° e 4 marzo e regola il lavoro agile alla lettera r) dell’articolo 2.

La copertura
Siamo così al Dpcm 9 marzo, che estende all’intero territorio nazionale le misure di cui all’articolo 1 del Dpcm 8 marzo. Il punto è che l’articolo 2, comma 2, dispone la cessazione di efficacia anche delle disposizioni dell’articolo 3 del Dpcm 8 marzo, che contiene le regole per il ricorso al lavoro super-agile. La conseguenza è che lo snellimento delle procedure per il ricorso a tale modalità non ha più copertura normativa, posto che il Dl 6/2020 non contiene precetti in tal senso e rinvia a Dpcm nel frattempo resi inefficaci. È vero che il Dpcm 9 marzo dispone la cessazione di efficacia delle misure «ove incompatibili» con quelle dell’articolo 1 del Dpcm 8 marzo, ma quest’ultimo non fa cenno alcuno al lavoro agile e tratta dei datori di lavoro pubblici e privati solo per raccomandare loro di promuovere la fruizione da parte dei lavoratori di periodi di congedo e di ferie (lettera e). Nella convulsa successione di norme rimane per il lavoro super-agile il solo riferimento dell’articolo 18 del Dl 9/2020, che ha certo l’obiettivo di agevolare l’applicazione della modalità lavorativa quale ulteriore misura per contrastare e contenere l’emergenza epidemiologica, ma ha portata relativamente limitata: da un lato incrementa sino al 50% del valore iniziale i quantitativi massimi delle vigenti convenzioni-quadro di Consip per la fornitura di personal computer portatili e tablet e dispone il ricorso a procedure negoziate senza previa pubblicazione di bandi di gara; dall’altro espunge dall’articolo 14, comma 1, della legge 124/2015 le parole «per la sperimentazione» in modo che il ricorso al lavoro agile non ha più carattere sperimentale ma entra a pieno regime nelle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. Troppo poco perché si possano considerare legittime le due deroghe alla legge 81/2017, ammissibili solo con norme di rango primario


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