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Configurabilità del trasferimento di ufficio per ragioni disciplinari
Una recente pronuncia della Cassazione consente di verificare in concreto i confini, non sempre netti quanto possono apparirlo in astratto, tra il potere datoriale di conformazione del rapporto di lavoro e le esigenze di tutela delle ragioni dell’impresa

La pronuncia in esame offre il destro per verificare “sul campo” i confini, non sempre netti quanto possono apparirlo in astratto, tra il potere datoriale di conformazione del rapporto di lavoro – che si estrinseca, tra l’altro, nella determinazione della sede di svolgimento della prestazione e nell’assegnazione dei compiti da disbrigare – e le esigenze di tutela delle ragioni dell’impresa che, in particolare a seguito del verificarsi di eventi di natura disciplinare, ne impongono la modificazione unilaterale, in particolare col trasferimento della sede di lavoro.
Accade sovente che, in tali casi, l’esigenza di reagire all’evento disciplinarmente rilevante, si traduce nella decisione di adibire il dipendente ad altri compiti ovvero trasferirlo a diversa sede lavorativa; ma, se è vero che i due temi sono nettamente distinti in linea teorica, restano invero percepibili le contaminazioni che la correlata vicenda disciplinare innegabilmente comporta sul ricorso alla misura della mobilità di ufficio.
Ciò risulta innanzitutto sul piano del diritto oggettivo, alla luce degli istituti normativi che hanno regolato ipotesi in cui, al concorrere di eventi disciplinarmente rilevanti, è doveroso, per l’ente, disporre il trasferimento del dipendente ad altro ufficio. Ci si riferisce in particolare all’art. 3 della legge n. 97/2001, che ha introdotto l’obbligo per le PP.AA. di destinare ad altro ufficio il dipendente tratto a giudizio penale per taluni specifici reati, ivi tassativamente elencati.

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