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Aumenti (a sorpresa) per gli stipendi della Pa
La Consulta boccia anche la trattenuta del 2,5% sul Tfr: da 20 a 80 euro netti in più al mese, oltre agli arretrati

Fonte: Il Sole 24 Ore del lunedì

Gli stipendi pubblici e i rinnovi contrattuali sono congelati da più di due anni, ma mentre il Governo lavora per prolungare il blocco totale (indennità di vacanza contrattuale compresa) almeno fino al 2015, arriva una stecca pesante nel coro dell’austerità: a farla è la Corte costituzionale, che nella sentenza 223/2012 non si è limitata a cancellare il “contributo di solidarietà” a carico degli statali e a tagliare le indennità speciali dei magistrati, ma ha bocciato anche la trattenuta del 2,5% sul Tfr dei dipendenti pubblici, non imposta, invece, ai lavoratori del settore privato. Con un duplice risultato: l’obbligo di restituzione degli arretrati, e un aumento in busta paga rispetto ai livelli previsti dalla manovra estiva del 2010 che aveva ingabbiato gli stipendi pubblici. Il 2,5% caduto sotto le forbici dei giudici delle leggi si calcola infatti sulla retribuzione del dipendente, comprese le indennità di posizione, e non sul solo accantonamento per il trattamento di fine rapporto o di fine servizio, per cui la novità può valere per i 3,3 milioni di dipendenti pubblici più di molti rinnovi contrattuali anche siglati in tempi più generosi degli attuali.
Per rendersene conto basta dare un’occhiata alle tabelle pubblicate qui a fianco, che fanno i conti in tasca alle figure-tipo che lavorano negli uffici dell’amministrazione centrale o negli enti locali. Per un impiegato di un ente territoriale, per esempio, la pronuncia costituzionale vale 332 euro netti di arretrati del 2011, 307 di competenza 2012 (i due valori sono diversi perché nel 2011 il Tfr era soggetto a tassazione separata, più leggera di quella ordinaria) e un incremento netto in busta paga da quasi 24 euro al mese. Le cifre, naturalmente, salgono insieme alla posizione occupata dall’interessato nella gerarchia dell’amministrazione, e non solo per l’aumento dello stipendio di base. Se il dipendente è anche titolare di «posizione organizzativa», cioè in pratica ha la responsabilità di un ufficio, pur non essendo un dirigente, nel calcolo entrano anche i 12.911 euro dell’indennità di posizione, e il conto si gonfia: tra 2011 e 2012 l’arretrato vale mille euro, e l’aumento netto in busta si attesta poco sopra i 34 euro al mese.
Per un dirigente, la cifra in gioco raddoppia abbondantemente. Gli stessi calcoli si replicano nell’amministrazione centrale, dove a parità di qualifica gli stipendi sono più alti di quelli che si incassano nel territorio. Al vertice della piramide si incontrano i dirigenti di prima fascia, che dalla novità attendono 2.300 euro di arretrati e 80 euro al mese in più rispetto alla retribuzione ricevuta fino al mese scorso. Un’ottima notizia, che soprattutto per questa categoria si accompagna all’addio, anch’esso retroattivo, al contributo di solidarietà che chiedeva il 5% della quota di retribuzione superiore a 90mila euro e il 10% di quella che supera quota 150mila euro. Pessima, invece, è la notizia letta con gli occhi delle amministrazioni e dei conti pubblici (si veda anche l’altro articolo in pagina): negli uffici si è già avviata la macchina delle richieste di restituzione delle trattenute diventate illegittime ex post, le amministrazioni in genere prendono tempo in attesa di istruzioni ministeriali ma presto occorrerà mettere mano alla cassa.
A motivare la presa di posizione dei giudici costituzionali, che in un colpo solo hanno abbattuto tre pilastri centrali nella gabbia con cui la manovra estiva 2010 ha provato a imbrigliare i costi del pubblico impiego, ci sono ovvie ragioni di equità. La Corte ha richiamato gli articoli 3 e 53 della Costituzione, che tutelano la parità dei cittadini davanti alla legge e la proporzionalità fra le richieste fiscali e la capacità contributiva del singolo. Un euro, spiegano i giudici, Costituzione alla mano, ha lo stesso valore sia quando va in tasca a uno statale sia quando finisce a un lavoratore privato, per cui deve essere sottoposto a una tassazione identica. Un principio chiaro, che ora impone al Governo di trovare strade nuove se vuole recuperare i risparmi caduti sotto i colpi della Corte.


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