Smart working diffuso nella PA, ma senza nuove percentuali

Fonte: Italia Oggi

da Italia Oggi – In collaborazione con Mimesi s.r.l.

Smart working più diffuso nelle pubbliche amministrazioni, ma senza specifiche indicazioni percentuali, se non il rispetto del 50% come soglia minima del personale da far lavorare da remoto, se impiegato in attività compatibili. L’articolo 5, commi 3 e 4, del D.P.C.M. 3.11.2020 non aggiunge molto di diverso rispetto all’impianto già delineato dai D.P.C.M. di ottobre e dal decreto della Funzione Pubblica del 19 ottobre 2020. La disposizione citata prevede che «le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, assicurano le percentuali più elevate possibili di lavoro agile, compatibili con le potenzialità organizzative e con la qualità e l’effettività del servizio erogato con le modalità stabilite da uno o più decreti del Ministro della pubblica amministrazione, garantendo almeno la percentuale di cui all’articolo 263, comma 1, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77». Di fatto, ricalca quasi letteralmente le indicazioni già fissate nell’articolo 3, comma 3, del dm 19.10.2020, ma è utile che sia introdotto nel D.P.C.M. : l’articolo 5, infatti, è norma qualificata di applicazione sull’intero territorio nazionale. Si risolve, quindi, ogni eventuale dubbio sull’estensione territoriale delle misure relative allo smart working.

Anche il comma 4 del D.P.C.M.  di fatto altro non è se la ritrascrizione di previsioni già contenute nel d.m. 19.10.2020. In particolare, il decreto di Palazzo Chigi conferma che è competenza dei dirigenti, dunque non degli organi di governo, intervenire e decidere sullo smart working, dando preferenza ai lavoratori genitori di alunni delle scuole posti in quarantena e ai lavoratori fragili, anche prevedendo la loro adibizione a mansioni compatibili con lo smart working, se equivalenti a quelle ordinariamente svolte ma non idonee al lavoro agile, con opportuna attività di formazione. Ancora, il D.P.C.M. ribadisce che ciascun dirigente organizza l’ufficio al quale è preposto, assicurando su base giornaliera, settimanale o plurisettimanale, lo svolgimento in lavoro agile, nella percentuale più elevata possibile, tenendo conto dei parametri visti prima. Sono proprio questi parametri, tuttavia, il punto debole del D.P.C.M. , come del decreto di Palazzo Vidoni. Infatti, si tratta di indicazioni estremamente generiche, senza parametri di misurazione (nemmeno della percentuale di dipendenti da remotizzare, se non nel minimo del 50%), senza standard per definire obiettivi chiari, senza indicare quali possibili strumenti di verifica utilizzare.

Di fatto, viene lasciato alla completa discrezionalità di ogni singola amministrazione decidere se le attività sono idonee o no allo smart working e la misura percentuale dei dipendenti da adibire, in assenza di qualsiasi strumento per verificare se le scelte adottate siano motivate ed efficaci. Nulla può impedire, a meno che gli enti non siano nelle zone arancioni o rosse, di stabilire che nessuna attività sia compatibile col lavoro agile (cosa che qualche ente ha già stabilito), lasciando il 100% in lavoro da sede, o che tutti i dipendenti siano da mandare al lavoro da remoto, in assenza tuttavia di una seria valutazione dell’impatto esterno della decisione. Unica novità di rilievo, la precisazione contenuta nel comma 5 dell’articolo 5 secondo la quale le amministrazioni, allo scopo di evitare assembramenti, dovranno differenziare gli orari non solo degli ingressi, ma anche delle uscite (come del resto appariva già logico).

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