Lo smart working e la sua concreta applicazione

Approfondimento di Paola Morigi

L’emergenza sanitaria connessa con il Coronavirus ha portato alla ribalta il lavoro agile – o smart working – contemplato dall’art. 18 della l. n. 81/2017. Nei numerosi decreti-legge e D.P.C.M. che sono stati emanati nei giorni scorsi per trovare strumenti che aiutino a superare questo periodo difficile per il nostro Paese, cercando di contenere il diffondersi della nuova pandemia, lo smart working è stato ripetutamente richiamato quale possibile soluzione innovativa per consentire il lavoro senza la necessità di recarsi materialmente in ufficio(1). Più recentemente la ministra della Funzione pubblica Fabiana Dadone ha diramato una nuova direttiva, la n. 2/2020, nella quale si dice che i datori di lavoro pubblici devono assicurare il “ricorso al lavoro agile come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”, pur nel rispetto delle normative vigenti.

I decreti che sono stati pubblicati e che trattano questa materia si sono preoccupati di favorirne la diffusione, arrivando anche a prevedere tipologie di smart working che non presuppongono la firma dell’accordo individuale fra datore di lavoro e dipendente, ma forme più semplici e obblighi di informazione da assolversi per via telematica, proprio per far fronte alle difficoltà del momento.
Ora non vorremmo però occuparci della normativa che – in situazione di emergenza – è stata emanata di recente, né delle direttive, circolari o delle note informative che gli istituti interessati alla materia si sono giustamente affrettati di diramare(2), ma piuttosto affrontare un altro problema. Vorremmo cioè capire se lo smart working possa trovare facile impiego..

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