Le richieste di accesso agli atti o le segnalazioni del whistleblower non possono essere causa di sanzione disciplinare: la richiesta è un dovere del dipendente pubblico

Approfondimento di Maurizio Lucca

La Cassazione Civile, con la sentenza della Sez. Lavoro n. 28923 del 12 novembre 2018, interviene in occasione dell’annullamento di una sanzione disciplinare (rimprovero scritto) irrogata ad un dipendente reo di aver richiesto, mediante l’istituto dell’accesso agli atti, informazioni (sui requisiti e percorso professionale, secondo il principio di verità, seppure inteso in senso soggettivo) sul proprio superiore (il dubbio da sfatare era quello di accertare il superamento o meno di un concorso per l’immissione al ruolo dirigenziale), tracciando un decalogo sull’esigenza di trasparenza informativa che non può giustificare un procedimento disciplinare.
Va subito detto, che non è indifferente sapere se il proprio diretto superiore gerarchico si trovi a ricoprire quel ruolo in conseguenza di atti illeciti, in relazione agli effetti producibili sull’azione amministrativa, sia sotto il profilo degli atti adottati che delle risorse pubbliche erogate (stipendi).
Tale richiesta corrisponde senz’altro ad un interesse concreto, diretto ed attuale del lavoratore, presidiato, oltre dall’art. 22 ss. della legge n. 241/1990, dagli artt. 1, 4 e 35 Cost., all’ostensione dei relativi dati.
La legittimazione all’accesso va, dunque, riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione in concreto di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.
Di converso, la richiesta generica (formulata in ordine a tutte le candidature presentate per partecipare ad una procedura di interpello) introduce un controllo generalizzato dell’operato dell’Amministrazione, espressamente sottratto ai richiedenti l’accesso dall’art. 24, comma 3 della legge n. 241 del 1990.
Nello specifico del caso, la sanzione trova la sua ragione nella trasmissione dell’istanza ostensiva al Collegio dei sindaci e alla Corte dei conti.

Condotta (quella della trasmissione della richiesta agli organi di controllo) che viene ritenuta dall’Amministrazione (di appartenenza del soggetto sanzionato) fonte di una violazione del principio di correttezza, che rappresenta una specificazione dei più generali principi di buona fede e correttezza contrattuale (di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ.); tutti principi che ricevono concreta modulazione nell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 cod. civ., comprendente tutti i comportamenti che possono recare pregiudizio al datore di lavoro, purché non siano espressione di contrapposti diritti del lavoratore, come quello di libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e quello di agire in giudizio anche per la repressione di comportamenti datoriali illeciti (art. 24 Cost.).

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