Il labile confine tra la vita privata del lavoratore e la tutela degli interessi del datore di lavoro

Approfondimento di R. Squeglia

La pronuncia che qui si segnala, dello scorso 19 gennaio, prende le mosse dall’impugnativa della sanzione disciplinare del licenziamento intimato da una società nei confronti di un proprio dipendente, reo di aver praticato attività sportiva (fuori dall’orario di lavoro) dopo aveva ottenuto dal datore di lavoro l’adibizione a mansioni meno gravose in quanto fisicamente sofferente.

Invero la questione disciplinare, nella fattispecie che occupa, fa solo da sfondo ad una problematica ben più complessa e pregna di implicazioni, ovverosia quella della condotta che la parte contrattuale (nel caso il lavoratore) deve serbare, in ossequio ai canoni di correttezza e buona fede che permeano il rapporto contrattuale, non solo nello specifico momento della prestazione lavorativa, ma anche nel proprio tempo non dedicato al lavoro.
Più precisamente, ci si domanda se il principio secondo cui il lavoratore, assente dal lavoro perché infermo, sia tenuto a serbare una condotta che non solo non ritardi ma che addirittura agevoli il recupero delle energie psico-fisiche del prestatore d’opera, possa estendersi anche all’ipotesi di causa, nella quale un dipendente con mansioni di bilanciatore aveva ottenuto di essere destinato a mansioni meno impegnative dal punto di vista fisico.

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