Stop ai controlli che non danno benefici

Fonte: Il Sole 24 Ore

In Germania se un’attività di controllo costa più di quanto può far risparmiare viene cancellata. È questo il modello che i revisori dei conti di Comuni e Province chiedono di introdurre anche da noi, nel tentativo di sfoltire una rete di adempimenti formali che continua a intensificarsi senza però mettere in luce lo stato reale dei conti locali italiani. La proposta a Governo e Parlamento in vista della legge di stabilità arriva da Udine, dove l’associazione nazionale dei revisori locali (Ancrel) ha riunito i professionisti che vigilano sui conti degli enti. O almeno ci provano, schiacciati secondo il presidente dell’Ancrel, Antonino Borghi, da «un insieme di regole che hanno snaturato il nostro ruolo, con la continua richiesta di certificazioni e attestazioni di dati già presenti nei documenti ufficiali». I revisori, insomma, sono stufi di firmare carte fotocopia con cui le diverse autorità, dalla Funzione pubblica alla Ragioneria generale dello Stato passando per la Corte dei conti, chiedono la certificazione di informazioni già note. Il calendario del revisore è scandito ormai da almeno 70 adempimenti annuali in cui si attestano i principali dati del bilancio, le spese e la consistenza del personale. «Ma il ritorno di questa mole di dati è prossimo allo zero spiega Borghi perché il sistema pubblico di informazione ha un impianto medioevale e nonostante queste continue richieste non è possibile avere un dato certo sull’entità dell’indebitamento o sul numero delle società partecipate». Proprio le partecipate, a cui i professionisti hanno dedicato il convegno annuale, sono il fronte più caldo dell’«emergenza-revisione». Il decreto “salva-enti” (Dl 174/2012) ha chiesto ai revisori di monitorare da vicino l’andamento delle società, verificando contratti di servizio e rapporti economico-finanziari fra ente e azienda. L’obiettivo è corretto, e condiviso dai revisori che puntano a un controllo integrato fra ente e società collegate, ma la sua attuazione rimane un’incognita anche perché lo stesso legislatore sembra essere il primo a ignorare la verifica sugli effetti delle regole che impone alle aziende pubbliche. Il 30 settembre scorso è scaduto il termine entro il quale i Comuni fino a 30mila abitanti avrebbero dovuto alienare le proprie partecipazioni, ma nulla si è mosso e lo stesso rischia di capitare il 31 dicembre, data entro la quale vanno privatizzate o sciolte le società strumentali. Legge di stabilità e decreti collegati, allora, possono rappresentare l’occasione per fare ordine. Anche perché in quella sede dovrebbe debuttare davvero l’estensione del Patto di stabilità alle aziende in house, basato su un doppio obiettivo: un saldo economico almeno in pareggio (con piano di rientro per chi non lo raggiunge), e un limite all’indebitamento, diversificato a seconda dei settori di attività. Senza rimettere ordine nei controlli, però, anche questa nuova regola rischia di rivelarsi vana perché, sintetizza Borghi, «è inutile perdere sei mesi per stabilire se un Comune medio-piccolo deve dichiarare il dissesto quando poi si scopre improvvisamente che Roma Capitale ha un disavanzo 2013 di 864 milioni».

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