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Sanità: la difficile interpretazione dei contratti collettivi
Alcuni esempi concreti in merito delineati dal nostro esperto

Le norme giuridiche possiedono le caratteristiche dell’astrattezza, della generalità e della coattività. Una norma è in buona sostanza un enunciato che ha il fine di stabilire un comportamento condiviso secondo le necessità e le convenienze rilevate all’interno di una collettività o di un gruppo sociale. Un corpo normativo – sia esso unilaterale, bilaterale, autoritativo o pattizio – costituisce un insieme di regole che concorrono a disciplinare la vita organizzata di due o più soggetti con lo scopo di regolare il comportamento dei singoli. Inoltre le norme giuridiche dovrebbero essere diffusamente intellegibili come, ad esempio, avviene nel mondo anglosassone. Invece nel nostro Paese la semplice lettura di un testo legislativo o di un contratto di conto corrente sono a volte un’impresa nella quale trovano difficoltà gli stessi addetti ai lavori.  Tra le tipologie di norme giuridiche, in quanto a opacità e difficoltà di lettura, spiccano le clausole dei contratti collettivi di lavoro che spesso non riescono a definire con chiarezza il perimetro dei reciproci diritti e obblighi del datore di lavoro e dei suoi dipendenti. Peraltro, in relazione ai contratti collettivi, una motivazione specifica di tale circostanza è quella di essere normazione di natura pattizia che giocoforza è l’esito di mediazioni e compromessi che devono rispondere alla reciproca convenienza delle controparti a stipulare la norma stessa. Tuttavia è spesso riscontrabile una ulteriore motivazione, specie nel pubblico impiego, che è quella di lasciare aperta la possibilità di “gestire” la clausola contrattuale in sede aziendale per consentire spazi di trattativa di secondo livello. Motivazione del tutto plausibile che non può peraltro giustificare del tutto il fatto che esistono norme dei contratti collettivi che sono ai limiti dell’incomprensibile. Aldilà delle finalità più o meno evidenti dell’uso del “sindacalese”, è certo che la regolamentazione di rapporti giuridici attuata con regole non pienamente lineari e condivise non giova alla gestione del rapporto di lavoro e porta solo polemiche e, spesso, contenzioso.  In linea generale si può affermare che ogniqualvolta le parti negoziali ricorrono alla locuzione “di norma” è evidente l’intenzione di lasciare aperta la applicazione della disposizione, intendendo che la prescrizione vale “normalmente” ma che, a fronte di condizioni oggettive adeguatamente motivate, l’applicazione potrebbe trovare una deroga.  In questa sede proverò a individuare nei contratti collettivi della Sanità alcune tra le più significative di queste norme di difficile costruzione – tre per la dirigenza e tre per il comparto – segnalando i punti (volutamente?) oscuri e le ricadute sul rapporto di lavoro dei dipendenti.

Prima di entrare nel dettaglio, si può ricordare una norma trasversale – in quanto contenuta in un contratto quadro – che è quasi l’allegoria di quanto si sta dicendo. Si tratta delle modalità di svolgimento delle riunioni sindacali che l’art. 10, comma 7 del CCNQ del 7 agosto 1998 così disciplina: “le riunioni con le quali le pubbliche amministrazioni assicurano i vari livelli di relazioni sindacali nelle materie previste dai CCNL vigenti avvengono – normalmente – al di fuori dell’orario di lavoro. Ove ciò non sia possibile sarà comunque garantito – attraverso le relazioni sindacali previste dai rispettivi contratti collettivi – l’espletamento del loro mandato, attivando procedure e modalità idonee a tal fine”. Infiniti sono stati i quesiti inoltrati all’ARAN sull’applicazione pratica di questa norma e, in particolare, se le riunioni devono essere svolte tassativamente fuori orario. Le risposte sono sempre state interlocutorie per via del secondo periodo della clausola e per il principio della salvezza delle relazioni sindacali. Le pubbliche amministrazioni sono tuttavia strette tra il rischio neanche troppo latente del danno erariale  – per aver sottratto ore di lavoro per le trattative – e quello della condotta antisindacale – per i vincoli imposti alle stesse trattative – proprio a ragione dell’ambiguità contenuta nel citato art. 10 che passa da un “normalmente” ad un “comunque garantite” e lascia l’intera questione in balia di non meglio individuate “procedure e modalità idonee a tal fine” senza però rispondere alla domanda originaria. L’immediata conseguenza è quella dell’esistenza di prassi e comportamenti molto difformi, fatto che certo non depone a favore della trasparenza e dei principi di correttezza e buona fede che sono i pilastri sui quali si deve fondare il rapporto di lavoro subordinato, sia privato che pubblico. Tale diversità applicativa si può riscontrare anche in tutti gli esempi che seguono. Le parole o locuzioni controverse sono sottolineate ad evidenziare le scelte di palese compromesso tra le parti negoziali che purtroppo non giovano alla applicazione lineare e omogenea dei contratti di lavoro.

Orario di lavoro dei primari

Da dodici anni una spinosa questione è dibattuta nelle aziende sanitarie, per la verità sempre meno frequentemente: quale è l’orario di lavoro dei direttori di struttura complessa e, in particolare, se devono prestare “comunque” 38 ore settimanali. La fonte della problematica è l’art. 15 del CCNL del 3 novembre 2005 che seraficamente afferma “i direttori di struttura complessa assicurano la propria presenza in servizio per garantire il normale funzionamento della struttura cui sono preposti ed organizzano il proprio tempo di lavoro, articolandolo in modo flessibile per correlarlo a quello degli altri dirigenti” .  Nella regolamentazione di un aspetto così determinante del rapporto di lavoro, nessun soggetto sano di mente – o, in buona fede, se si preferisce – utilizzerebbe il verbo “correlare”: se un orario di lavoro minimo non è previsto ciò deve essere detto in modo espresso e non dedotto mentre se l’interpretazione è, come è ovvio, che deve essere almeno quanto quello “degli altri dirigenti” è altrettanto necessaria una esplicitazione. La ricostruzione di tutti gli aspetti della problematica è rinvenibile nell’articolo pubblicato sul n. 6/2018 della Rivista “RU – Risorse Umane” di Maggioli Editore ma, aldilà del merito della vicenda, è incontrovertibile che una formulazione che ricorre alle parole “per correrarlo” non risponde ai canoni di correttezza e buona fede indispensabili per la regolazione del rapporto di lavoro.

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