Pagelle agli statali, il piano per sbloccare le norme di Brunetta

Fonte: Corriere della sera

«Rilevazione delle competenze dei lavoratori pubblici». Sta sotto l’apparente neutralità di questa frase, contenuta nell’articolo 13 del disegno di legge delega sulla Pubblica amministrazione, approvato a luglio e arenatosi al Senato, il veicolo per introdurre criteri più stringenti di licenziamento nella P.a. Criteri che Matteo Renzi ha invocato nella conferenza stampa di fine anno, dopo le polemiche sorte circa l’opportunità di estendere il Jobs Act ai lavoratori pubblici, indicando proprio in tale delega lo strumento più idoneo da utilizzare per raggiungere lo scopo. Ma di che licenziamento si sta parlando? La questione è stata già sviscerata durante il governo Monti, quando si aprì un dibattito sull’estendibilità delle nuove norme sul licenziamento economico, introdotte dalla legge Fornero, al pubblico impiego. Era il 2012 e anche allora la querelle produsse uno scontro nel governo tra il ministro Fornero, favorevole all’estensione delle nuove norme e il collega della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, contrario. Fu questi a riepilogare lo stato della disciplina dei dipendenti pubblici, che è rimasta la stessa, non essendo stata cambiata né da Monti né da Letta. 1) il licenziamento per motivi discriminatori è lo stesso sia nel pubblico che nel privato. 2) il licenziamento per motivi economici ha nel pubblico una disciplina ad hoc sugli esodi collettivi con una procedura che porta alla mobilità dei lavoratori presso altre amministrazioni e alla eventuale collocazione in disponibilità con trattamento economico pari all’80% dell’ultimo stipendio per due annualità. Questa norma, che esisteva già nel 2012, è stata resa più stringente dal decreto P.a., diventato legge a agosto, che ha aggiunto il principio in base al quale gli statali possono essere trasferiti in sedi della stessa o di un’altra amministrazione, collocate nel territorio dello stesso Comune o a distanza non superiore a 50 chilometri dalla sede in cui lavorano senza previe motivazioni. Nel caso si rifiutino possono essere messi in disponibilità, stessa cosa se rifiutano il demansionamento, anch’esso introdotto dal decreto. Per rendere applicabili queste due novità mancano però le norme attuative. 3) il licenziamento per motivi disciplinari, oggetto di battaglia durante il governo Monti, torna centrale in questi giorni. Oggi vige ancora il sistema introdotto nel 2009 dal ministro del governo Berlusconi, Renato Brunetta, che introdusse un sistema di valutazione dei dipendenti da parte dei dirigenti: chi per un biennio viene giudicato scarsamente produttivo può essere licenziato. Durante il governo Monti si ipotizzò di applicare la legge Fornero prevedendo che in caso tale licenziamento risultasse illegittimo ci sarebbe stato solo l’indennizzo e non il reintegro. Fu Patroni Griffi a escluderlo, sostenendo che l’indennizzo sarebbe andato a gravare sulla collettività e avrebbe comportato la responsabilità erariale del dirigente, scoraggiando tali licenziamenti. Il dibattito si arenò dopo un primo accordo con i sindacati, ma oggi torna attuale. L’intenzione di Renzi è rendere più stringenti le norme di Brunetta, finora disapplicate in mancanza di rinnovi contrattuali che ne specificassero l’applicazione. L’occasione è offerta dall’articolo 13 della delega che, tra le altre cose, intende intervenire sulla «rilevazione delle competenze dei lavoratori pubblici», insomma sulla loro valutazione. Sul cammino delle buone intenzioni si frappone però un macigno: in quella stessa delega è contenuto un meccanismo micidiale: il licenziamento dei dirigenti pubblici che per due anni consecutivi non ricevano alcun incarico. Finora è stata questa la norma-tabù che ha relegato la riforma allo stallo. Febbraio sarà il mese decisivo?

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