Molto spending e poca review I tagli alla spesa finiti nel nulla

Fonte: Italia Oggi

Una «spending review» che è rimasta lettera morta. Fra sentenze della Corte costituzionale, pronunce di non pochi Tar, pareri della Corte dei conti, e anche norme annunciate e poi finite nel nulla. Un puzzle, quello della (tentata e fallita, si potrebbe dire) razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica, che continua a perdere pezzi, invece di dar vita a un’immagine strutturata e completa di riordino, riorganizzazione e contenimento così come ipotizzati in vari provvedimenti che hanno visto la luce negli ultimi due anni. Le bocciature giudiziarie, in particolare, hanno messo in evidenza difetti gravi, forzature, propri di una legislazione emergenziale, frettolosa, priva di una visione programmatica complessiva. Soppressione e riordino delle province. La più simbolica e sintomatica stroncatura delle manovre di spending review all’italiana è certamente quella relativa al tentativo di soppressione e poi riordino delle province. Tre decreti legge (201/2011, convertito in legge 214/2011; 95/2012, convertito in legge 135/2012; 188/2012, non convertito) ed il provvedimento sul taglio delle risorse alle province (decreto del Ministro dell’Interno 25 ottobre 2012) che non hanno superato alcun vaglio di legittimità. La Consulta, con la sentenza 220/2013, ha evidenziato quello che avrebbe dovuto essere chiaro a tutti, prima ancora di avviare il percorso di riforma delle province: la Costituzione non ammette che l’ordinamento istituzionale venga cambiato mediante decretazione d’urgenza. Tanto più se, come nel caso di specie, il riordino delle province, nonostante fosse stato inserito in leggi finanziarie per riordinare i conti, non produca nessun risparmio quantificabile di spesa. La Corte costituzionale ha avuto gioco facile nel notare che «i perseguiti risparmi di spesa siano, allo stato, concretamente valutabili né quantificabili, seppur in via approssimativa». Insomma, una spending review che, in realtà, non rivedeva alcuna spesa. Tanto è vero che né il decreto «salva Italia», né il decreto dell’estate 2012 avevano indicato alcun effetto di risparmio nelle tabelle di bilancio. In effetti, connesso al riordino delle province era anche l’intervento sui loro bilanci, tagliato dal citato decreto ministeriale di 1,7 miliardi, in attuazione della spending review dell’estate 2012. Ma a giudicare illegittimo e fallimentare l’intervento di risparmio in questo caso è stato il Tar Lazio, che ha pronunciato l’altolà alla falcidia ai bilanci provinciali, a causa di errori sulla base di computo. Insomma, caldo estivo e fretta di agire avevano fatto tagliare non solo le spese per il funzionamento degli enti, ma anche quelle rivolte agli utenti. Dismissione di società partecipate ed enti strumentali. Molti la invocano, per eliminare il monopolio degli enti locali, liberalizzare il mercato e puntare ad una riduzione dei costi. Sull’onda di questa sorta di «guerra santa» alle società, sia la manovra estiva del 2011, sia quella del 2012 sono intervenute. La prima (dl 138/2011, convertito in legge 148/2011 – governo Berlusconi), per rimediare alla bocciatura del «referendum sull’acqua», che in realtà coinvolgeva la cosiddetta «liberalizzazione» dei servizi pubblici locali. Uno dei principali nodi critici che hanno fatto implodere la spending review, portandola ad un sostanziale fallimento, è stato proprio la velleitaria intenzione di affrontare per decretazione d’urgenza aspetti certamente rilevanti per la finanza pubblica, come il riordino di enti e società strumentali, per i quali, però, la decretazione d’urgenza si manifesta del tutto inadeguata. Il riordino delle società strumentali immaginato dal governo Monti è stata una debacle proprio per l’approccio semplicistico ed emergenziale. Il governo dei tecnici non si era accorto di aver imposto la chiusura e la dismissione non delle società partecipate preposte alla gestione dei servizi pubblici locali, bensì delle società cosiddette «strumentali» in house, quelle cioè che rendono servizi pubblici in forma privatistica agli stessi enti partecipanti e non ai cittadini. Non c’è ragione alcuna per imporre una cessione di quote di società che non solo non costituiscono alcuna lesione dei principi di libera concorrenza, ma obbediscono ai dettami del diritto comunitario, che evidentemente viene chiamato in causa solo ad intermittenza. Le liberalizzazioni dovrebbero riguardare le società che producono servizi pubblici, non quelle strumentali in house. Poco prima dell’intervento della consulta, due pareri della Corte dei conti, Sezioni regionali di controllo della Liguria e della Campania avevano già posto nel nulla la spending review dedicata alle società, anticipando una lettura dell’articolo 4 del dl 95 fatta propria pochi giorni dopo dalla Corte costituzionale. Identico ragionamento vale per la dismissione degli enti strumentali, bocciata a sua volta dalla Corte costituzionale. Spese, stipendi e consulenze. Una spending review vera e propria non dovrebbe aggredire i «massimi sistemi», cioè addirittura l’ordinamento enti (province e società in house), ma dovrebbe analizzare singole evidenti voci di spesa e rimodularle. Come, per esempio, le spese per contributi, collaborazioni, consulenze. Il dl 78/2010, all’articolo 6, in effetti ci aveva provato a porre una contrazione delle spese per manifestazioni, consulenze, sponsorizzazioni e spese di comunicazione dell’80% rispetto al 2009. Ma è stato un fallimento, almeno a guardare i dati delle spese per consulenze e collaborazioni raccolte dal dipartimento della Funzione pubblica: infatti, i dati del volume di spesa del 2011 sono identici a quelli del 2010 e 2009, segno che nessun vero taglio è stato concretamente disposto. Quando governo e parlamento, poi, hanno provato a limitare voci precise di spesa, sono inciampati nella violazione dei principi di uguaglianza. Come è avvenuto col tentativo di assoggettare gli stipendi dei dirigenti pubblici ad una sorta di contributo di solidarietà del 5% per le retribuzioni oltre i 90 mila euro e del 10% per quelle superiori ai 150 mila euro. Nulla da fare anche in questo caso. La norma, introdotta dalla tremontiana manovra del 2010 (dl 78/2010) è caduta sotto la mannaia della Corte costituzionale che l’ha posta nel nulla con la sentenza 223/2012. Stessa sentenza e stessa sorte, la dichiarazione di incostituzionalità, per la norma della manovra 2010 che intendeva congelare l’anzianità dei magistrati. Lavoro pubblico. Ma, nel campo del lavoro pubblico, le varie spending review si sono «abolite da sole», senza nemmeno dover aspettare l’intervento dei magistrati. Per esempio, si è persa completamente traccia del dpcm, previsto dalla manovra estiva del 2012, che avrebbe dovuto determinare i criteri di virtuosità degli enti locali, per consentire di stabilire se e dove vi fossero esuberi. Un ritardo davvero nocivo, ora che il parlamento e il governo intendono accelerare sull’eliminazione delle province: sapere quali enti possono permettersi di assorbire il personale provinciale e quali no sarebbe fondamentale. Allo stesso modo, non si ha traccia alcuna del monitoraggio che avrebbe dovuto compiere la Funzione Pubblica, per evidenziare quali enti ed amministrazioni abbiano posti disponibili in dotazione organica e, così, consentire al personale in esubero di chiedere di essere trasferiti in mobilità. Sparita anche l’armonizzazione della disciplina del lavoro pubblico con la riforma Fornero. Volatilizzato il dpcm che avrebbe dovuto ridurre le giornate festive non religiose. Indubbiamente, nel fallimento ha inciso notevolmente un aspetto critico, determinato sciaguratamente anni addietro dalle riforme Bassanini: l’eliminazione ad ogni livello dei controlli preventivi di legittimità. Per far funzionare operazioni di spending review non bastano le regole, ma occorrono controlli stringenti e puntuali per garantire che esse siano rispettate.

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