Marcegaglia ha aperto all’art. 18 anche la p.a.

Fonte: Italia Oggi

La concertazione su tutto in materia di lavoro è un’utopia.
Non tanto e non solo perché, in questa materia, il conflitto tra interessi non coincidenti comunque resta presente, ma perché il secondo Novecento ha dato vita a una cultura sub keynesiana nella gestione dei diritti dei lavoratori nella pubblica amministrazione.
Non esiste alcuna ragione al mondo, al di fuori degli interessi specifici dei sindacati e dei politici, perché i dipendenti pubblici non possano essere licenziati se l’andamento del ciclo economico lo richiede oppure messi in cassa integrazione o in situazioni analoghe per le medesime o per analoghe ragioni.
I dipendenti pubblici (al pari di quelli privati) non sono delle entità reddituali sganciate dall’economia reale che possono vantare diritti specifici a prescindere dalla situazione dell’economia.
Se anche loro non si aggiustano nel tempo ai cambiamenti e restano bloccati su situazioni preconcette, finisce come in Grecia: quando la crisi arriva e l’aggiustamento non è più rinviabile i salari devono essere tagliati del 30% e le piante organiche ridotte fino al 15%.
Essere rigidi a priori non è neanche nell’interesse dei dipendenti della p.a. italiana, dove peraltro è diventato noto come centinaia di dirigenti guadagnino molto di più di Barack Obama, presidente degli Usa, che incassa circa 250 mila euro lordi all’anno e, per disposizione costituzionale, nessun altro dipendente dell’amministrazione americana può guadagnare più di lui.
Neppure il numero uno della Fed: E ciò è ovvio, visto che Obama è l’apice del governo Usa.
Affermando che l’art.
18 difende assenteisti, fannulloni e ladri, la leader della Confindustria ha deciso di entrare nella fase finale e decisiva della trattativa sul costo del lavoro calando le carte che i suoi associati da tempo le chiedono di giocare.
Pretendere la stessa flessibilità in uscita dal lavoro pubblico significa poter avere un’economia italiana maggiormente flessibile per adattarsi agli shock esterni che la globalizzazione produce con sempre maggiore velocità e che non sono più, in alcun modo, gestibili dalla sola politica economica di un paese e neppure dalla sola eurozona.
L’art.
18 serve alle imprese per adattarsi al ciclo economico, non è una richiesta per introdurre licenziamenti discriminatori.
Quell’articolo non esiste in nessun Brasile, India o Cina e neppure nell’Europa che corre.
L’Italia dispone di un ammontare sempre minore di capitale da destinare a investimenti produttivi.
Quindi, o ne attira dal mondo globale, o si condanna all’implosione.
Con l’art.
18 e la p.a. rigida di oggi il capitale internazionale investe altrove.
Anche il capitale italiano.

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