LE ASSUNZIONI “POLITICHE”

Fonte: La Repubblica

Anno dopo anno, sull’enorme tappeto dell’hotel Plaza Giulio Andreotti, Pontefice Massimo degli statali, incedeva a passettini distribuendo tiepidi sorrisi e morbide strette di mano a una quantità inimmaginabile di impiegati, funzionari, dirigenti e superburocrati e pensionati, tutti della Pubblica Amministrazione. Era la festa cosiddetta «del ringraziamento» che a colpi di tartine, olive e Punt&mes, organizzava il braccio destro e secolare dell’andreottismo, Franco Evangelisti, per celebrare il fertile sposalizio tra lo scudo crociato e i lavoratori del pubblico impiego.
Difficile anche oggi capire chi ringraziasse chi. Arcipelago, fungaia, porto di mare, prateria, ventre molle, villaggio vacanze, a volte: cosa non è stato quel mondo per la Democrazia cristiana! E viceversa. «Fra le ragioni della lunga durata di questo partito- testimoniò Sabino Cassese prima ancora che crollasse – c’è anche il reclutamento dei dipendenti pubblici». Per restare all’ultimo quindicennio, tra il 1977 e il 1992, il professore fece in tempo a calcolare che su 600 mila assunti, più della metà, 350 mila, erano «entrati» senza concorso, in base a 12 leggi speciali.
E tuttavia se si estende più indietro la contabilità di quell’alleanza, e se si osserva con occhio vagamente poetico quel blocco sociale che dalla Cisl arrivava a comprendere i corpi separati dello Stato, appare chiaro che la Dc riuscì non solo crescere e a moltiplicare quel mondo, ma in qualche misura anche a contenerlo e a sagomarlo a sua immagine e somiglianza. «Mentalità da statale», si disse a lungo evocando un medesimo spirito fatto di senso dell’eterna provvisorietà, scettico solidarismo, cultura purgatoriale, complicità da cappuccino, solitudine da lavori a maglia e/o Settimana Enigmistica, indulgenti note di qualifica, piccoli e fiorenti commerci e poi deroghe, dispense, ponti, esoneri, assenteismo. Senza contare l’oceano di «segnalazioni» da vagliare ed eventualmente smaltire cui erano dediti i cosiddetti «comandati», preziosa e fidatissima sottospecie di ministeriali, l’élite delle segreterie particolari fatta di marines e insieme prestigiatori delle raccomandazioni; un corpo scelto di lavoratori che un altro professore, Paolo Sylos Labini, definì: «i topi nel formaggio».
Tale fu subito l’andazzo da far perdere la pazienza pure a don Sturzo, che però non era né romano, né democristiano: «Gli italiani – profetizzò cupo – arriveranno a essere tutti dipendenti pubblici e quel giorno non esisterà più una nazione di responsabili, ma un gregge irresponsabile». Chissà cosa direbbe oggi che il «governo dei saggi» vuole togliere perfino i buoni pasti, ai poveri statali.
Poveri oggi, anche se mai hanno nuotato nell’oro. Se occorre trovare una data decisiva, un momento topico della loro fortuna, è di nuovo Andreotti a fornirla, quando alla guida del centrodestra istituì la figura intermedia del dirigente (prima c’erano solo impiegati e direttori generali) e contro Ugo la Malfa e la Corte dei Conti concesse ai burocrati certi invidiatissimi «super stipendi» e al tempo stesso favorì ad alcuni di essi un esodo reso celebre dal fatto che la pensione era superiore allo stipendio. Si trattava di bloccare il successo del Msi. Ma per rendere il delitto ancora più perfetto, i benefici ebbero tanto di benedizione da parte del super-liberale Giovanni Malagodi, allora ministro del Tesoro.
Era il novembre del 1972, quarant’anni fa. E a riprova che tutto sempre un po’ ritorna, così la mise il Divo Giulio: «Non si può chiedere agli statali di essere i precursori di una austerità che deve, per essere giusta, cominciare altrove».

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