La provincia non resta a secco

Fonte: Italia Oggi

Le funzioni oggi spettanti alle province resteranno di loro competenza nonostante la mancata conversione de dl 188/2012 sul «riordino», decisa in parlamento. Domenica scorsa, vista la valanga di emendamenti presentati al ddl di conversione del decreto, la pregiudiziale di costituzionalità avanzata dal Pdl e il tempo irrisorio, il ministro Patroni Griffi aveva provato a mettere pressione al parlamento e spingerlo comunque a convertire il decreto.A questo scopo ha elaborato al volo, trasmettendolo ai giornali uno studio, secondo il quale la mancata conversione getterebbe nel caos il sistema. Infatti, resterebbero in vigore le disposizioni del decreto «salva-Italia», che ha ridotto le funzioni delle province solo a quelle di indirizzo (si veda ItaliaOggi di ieri). L’inquilino di Palazzo Vidoni ha rilevato che la mancata conversione potrebbe determinare un danno ai cittadini, in quanto le funzioni come scuola, viabilità, ambiente, resterebbero senza più un ente titolato a svolgerle. Tanto che comunque, la parte del dl relativa alle funzioni dovrebbe essere inserita, nelle intenzioni del governo, come emendamento al ddl Stabilità. Le cose non stanno come afferma Palazzo Vidoni. Apparentemente, l’articolo 23, comma 14, della legge 214/2011 limita drasticamente le funzioni provinciali: «Spettano alla provincia esclusivamente le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze». Ma il successivo comma 18 precisa che stato e regioni, con propria legge, secondo le rispettive competenze, debbano trasferire ai comuni, entro il 31 dicembre 2012, le funzioni conferite dalla normativa vigente alle province, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle regioni.Dunque, le disposizioni dell’articolo 23 della legge 214/2011 non sono immediatamente dispositive, ma solo programmatiche. Occorre l’intermediazione delle norme statali e regionali, perché le funzioni attualmente spettanti alle province siano attribuite a comuni o regioni.Nelle more della disciplina normativa statale e regionale, le province non possono che continuare a svolgere le funzioni attualmente loro assegnate.Del resto, l’articolo 17, comma 10, della legge 135/2012 ha anche specificato quali funzioni «fondamentali» resteranno in capo alle province, integrando la previsione programmatica dell’articolo 23 del «salva-Italia». Il che significa che Stato e regioni, con le leggi attuative dell’articolo 23, non potrebbero sottrarre alle province le competenze alle funzioni qualificate come fondamentali.Si potrebbe osservare che l’assegnazione alle province delle funzioni fondamentali previste dall’articolo 17, comma 10, potrà attivarsi (come ivi trascritto) «all’esito della procedura di accorpamento», per sostenere, parzialmente, la tesi avanzata dal ministro della funzione pubblica.Ma anche tale argomentazione non reggerebbe. Infatti, se l’attribuzione alle province di funzioni ulteriori e diverse da quelle di indirizzo e coordinamento dei comuni fosse davvero condizionato all’esito dell’accorpamento, prima di esso vi sarebbe un periodo lungo, quello necessario per completare gli accorpamenti territoriali, modificare i finanziamenti e trasferire beni, contratti e dipendenti, nel quale allo stesso modo nessun ente potrebbe esercitare le funzioni provinciali. Simmetricamente, il comma 9 dell’articolo 17 della legge 135/2012 subordina l’effettivo esercizio in capo ai comuni delle funzioni provinciali regolate da leggi statali emanate nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva dello stato, all’effettivo trasferimento dei beni e delle risorse. Il che dimostra come fino al completamento del processo di sottrazione delle funzioni alle province, dette funzioni continuano a spettare alle province. Prescindendo totalmente dalla circostanza che il dl 188/2012 fosse convertito o meno. Per altro, lo studio ministeriale evidenzia i vizi di incostituzionalità del dl 188/2012, in una sorta di confessione della violazione della Costituzione. Resta da chiedersi a cosa sarebbe valso convertire un decreto considerato incostituzionale dallo stesso suo autore.

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